Siamo solo all’inizio - ahinoi - di questo lockdown e già, secondo Nielsen, le vendite online dei prodotti di largo consumo - alimentari e non solo - sono aumentati di oltre l’80% rispetto allo scorso anno, del 30% rispetto alle settimane immediatamente precedenti alla chiusura degli esercizi commerciali decretata allo scopo di contenere il virus. Il rovescio della medaglia di questi fatturati da record sono le difficoltà che incontrano oggi - dovendo restare chiusi o lavorando a orari ridottissimi imposti per forza di decreto - i piccoli esercizi commerciali, quelli considerati “essenziali” come gli altri. Non soltanto oggi questi piccoli imprenditori sono costretti a sostenere costi - come gli affitti, le tasse come l’Irap, i dipendenti - subiscono danni dovuti al deperimento delle merci, ma vedono nero anche per il futuro.
La prossima stagione estiva - tipicamente quella dei consumi e del turismo - non consentirà di recuperare i soldi persi e non basteranno le misere misure adottate del governo per tirare a campare. Osservatori sostengono peraltro che questo Coronavirus ha costretto anche fasce di popolazione che non l’avevano mai fatto a sperimentare l’e-commerce e che molti di questi continueranno a farlo anche dopo, quando la nostra vita tornerà “normale”, gli orari di apertura liberalizzati, l’accesso libero e non limitato ad un numero chiuso di clienti.
Questa transizione - che avrà un peso importante in quell’11% di calo del Pil che prevedono alcune organizzazioni internazionali - deve essere gestita perché non farlo significherebbe non soltanto consegnare decine di migliaia di persone alla disoccupazione, ma perdere del tutto gli esercizi commerciali di vicinato e colpire pesantemente le loro filiere di prodotti locali. Il modo migliore per farlo è quello di chiedere ai colossi che oggi si trovano - per ragioni involontarie, di forza maggiore - ad avere un boom di fatturato un contributo di solidarietà che vada a favore degli altri: bisogna che i colossi come Amazon o Carrefour che oggi si sono fatti ancora più grossi aiutino l’alimentari o il panettiere vicino casa, che già soffriva e ora è costretto a chiudere alle 18 e a dimezzare i clienti perché può far entrare in bottega solo una persona per volta.
Nessuno si aspetta che i giganti rinuncino a quell’80% in più, ma perché non chiedere che possano destinare un contributo di solidarietà del 2 o 3% sull’incremento dei loro ricchi fatturati ad un Fondo destinato al piccolo commercio? Di fronte a un’emergenza come questa siamo tutti chiamati ad uno sforzo collettivo, a non dividerci. Poi verrà certamente il tempo della libera concorrenza e del progresso, ma non è questo. Questo fondo deve essere utilizzato non certo per sostenere direttamente i lavoratori - compito che spetta allo Stato, che, al momento, è in grande ritardo e ha messo in campo misure insufficienti - ma proprio gli esercizi.
Grazie al contributo dei “grandi” è possibile - e io dico necessario - risparmiare ai commercianti almeno il pagamento delle tasse nazionali e locali e dei contributi, dare ossigeno per tutto questo 2020. E’ l’anno bianco che ha proposto il centrodestra, ma è finanziato dai privati e non dal pubblico. E’ possibile ed è anche una misura di equità, compensativa: molti dei colossi oggi “avvantaggiati” dalla diffusione del virus approfittano di sedi all’estero e trattamenti fiscali di favore sono gravati da una pressione fiscale inferiore a quella di noi “umani”.
Non lo diciamo noi, ma uno studio di Mediobanca: i primi 25 gruppi al mondo, da Amazon a Uber, pagano in media tasse per il 33% mentre quegli stessi commercianti ai quali stanno facendo - involontaria - concorrenza sleale pagano il 59. Cosa mai sarà per loro quel 2% una tantum sull’extra fatturato?
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.