di Antonio Salvi*
Sembra che il buon vecchio Occidente stia tornando à la page. È infatti notizia di questi giorni che i Paesi tradizionalmente sviluppati (e in particolare il Giappone e gli Stati Uniti) rappresentano di nuovo il motore dell'economia, tirando la volata alla crescita globale. Questa posizione di leadership non si realizzava più dal 2007, un'era geologica fa se si utilizza l'orologio dell'economia.
Si tratta di una buona notizia, senz'altro. È la conferma, innanzitutto, che la «classe non è acqua» poiché il talento, l'esperienza, la storia, la cultura, le regole, l'organizzazione sociale e quant'altro caratterizza questo sistema siano elementi imprescindibili per un crescita economica equilibrata e duratura.
È la conferma, inoltre, che i sistemi politici stabili e soprattutto gli assetti economici di stampo capitalistico (preferibilmente senza alcun aggettivo) alla lunga vincono. Secondo uno studio di Bridgewater Associates, sarà l'apparentemente anziano e sonnecchiante Occidente a fornire il maggior contributo alla marcia dell'economia mondiale (una cosa, tanto per intenderci, da complessivi 74mila miliardi di dollari), apportando a essa una quota di crescita del 60%, pari a circa 2.400 miliardi di dollari.
Si tratta di economie evolute, per le quali le nostre aziende sono pronte a esportare i beni e i servizi che contribuiscono a rendere migliori le giornate dei loro cittadini (faccio riferimento a tre delle quattro «A» che caratterizzano il nostro sistema industriale: abbigliamento; alimentare; arredamento). Ma anche per la quarta A, l'automazione, può attendersi un'evoluzione positiva, rendendosi presumibilmente necessari nuovi investimenti tecnici al servizio del ritrovato sviluppo.
Il risveglio dei Paesi sviluppati è foriero di notizie positive anche per la capacità di attrarre investimenti in cerca di prospettive di crescita migliori e risultati più soddisfacenti. Peccato solo che il nostro Paese, a causa dell'opprimente peso della macchina pubblica e dell'inadeguata dotazione di infrastrutture, non sia più attrattivo da decenni. Il treno degli investimenti dall'estero è probabilmente perso anche stavolta, ma per l'economia cresciuta in maniera accorta utilizzando denari interni e caratterizzata da investimenti parametrati alle aspettative di sviluppo, gli aspetti positivi sopra evidenziati dovrebbero permanere.
Si tratta di una cattiva notizia, senz'altro, ed esaminiamone il perché. A danno di chi è avvenuto il sorpasso da parte dei Paesi sviluppati? Dei cosiddetti «Paesi emergenti», e in particolare di quelli denominati Bric (Brasile, Russia, India e Cina). I quali, a quanto pare, potrebbero dunque presto mutare il proprio status da «emergenti» in «emergenze». Quali i motivi di questo rallentamento? Probabilmente due: un fisiologico rallentamento dopo alcuni anni di crescita complessivamente impetuosa; le forti incertezze politiche e sociali che stanno attraversando. Sul primo dei due aspetti, vi è poco da dire essendo nota la spettacolare evoluzione del prodotto interno lordo di questi Paesi, soprattutto a partire dal decennio scorso.
Tuttavia, forse non tutti sanno che si è trattato di una crescita molto ballerina (o volatile, come amano dire gli esperti di finanza). Un paio di esempi, per chiarire le idee: in Brasile, il pil ha fatto registrare un aumento dello 0,9% nel 2012, a fronte di una crescita del 7,5% nel 2010 e una diminuzione dello 0,3% nel 2009 (dati del Fmi); in Russia si è registrato un picco di crescita pari allo 8,5% nel 2007, poi divenuto 4,3% nel 2011 (i dati del 2012 non sono ancora disponibili). È evidente che in una situazione del genere investire per lo sviluppo tende a divenire maggiormente problematico poiché questi mercati rimangono molto meno prevedibili rispetto ai loro equivalenti del mondo sviluppato.
A ciò si aggiunga che i fattori di incertezza sono anche legati alle proteste in corso in alcuni Paesi - Turchia e Brasile in testa - e al calo di popolarità dei sistemi di potere arroccatisi in trincea in Russia e in Cina. I sommovimenti e il malcontento contribuiscono ad affossare gli umori, riducendo ulteriormente la propensione agli investimenti e al consumo.
Quest'ultima, in particolare, potrebbe influire negativamente sul nostro sistema industriale e sulle quattro «A» di cui sopra.
Chiunque abiti in una grande città si è ormai abituato a vedere le boutique dei marchi più noti affollate di cinesi, indiani, russi, ecc (gli unici a mettere mano ai portafogli, mentre gli italiani si limitano a guardare le vetrine e a far perdere tempo ai commessi). Chiunque quest'estate abbia frequentato le spiagge un po' più esclusive dei nostri litorali si è rinfrancato vedendo come siano preda dei turisti per fortuna spendaccioni dei mercati emergenti.
Ecco, speriamo che il rallentamento delle loro economie e i loro problemi interni non svuotino le nostre boutique, restituendole a fantasmi di consumatori, e che le nostre spiagge non siano abbandonate a un triste scenario di mare dìinverno.
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