Economia

Dibattito: quali sono i fattori della crescita manageriale?

Responsabilità nel settore assicurativo Troppi ostacoli alla carriera delle donneNelle compagnie, l’occupazione femminile rappresenta il 45,9% del totale, ma solo il 13% dei dirigenti. Perché? Quali sono i freni alla crescita manageriale? Se ne è discusso in una tavola rotonda organizzata dal Giornale delle Assicurazioni

Dibattito: quali sono i fattori della crescita manageriale?

I numeri sono abbastanza espliciti: nel settore assicurativo italiano le donne rappresentano il 45,9% dei dipendenti, ma solo il 13% dei dirigenti e quelle diventate amministratore delegato si contano sulle dita di una sola mano. Quali sono le cause di questa discriminazione di genere matematicamente dimostrata? È il business assicurativo che non si addice alle donne o sono arretrati i modelli di gestione delle compagnie? E che cosa si può fare per risolvere il problema? Basteranno le «quote rosa»? Per rispondere a queste domande, Il Giornale delle assicurazioni ha promosso una tavola rotonda dal titolo Donne manager nel settore assicurativo: quali prospettive?. Al dibattito, moderato da Angela Maria Scullica, direttore de Il Giornale delle Assicurazioni, e dal giornalista Luciano Fumagalli, hanno partecipato Federica Alletto, vicedirettore generale di Genertel, Laura Balla, direttoremarketing e comunicazione di Metlife; Paola Corna Pellegrini, ceo di Allianz global assistance Italia; Fiammetta Fabris, direttore operativo di Unisalute; Isabella Fumagalli, amministratore delegato di Cardif; Adelaide Gilardi, amministratore delegato di Uca.

Quali sono gli aspetti più significativi - e le difficoltà, se ne ha incontrate - del suo inserimento nel mondo assicurativo e dello sviluppo della sua carriera? La mia situazione è particolare. Uca nasce a carattere familiare, da quattro generazioni i Gilardi operano in ambito assicurativo. Difficile dunque parlare in prima persona di problemi incontrati nel fare carriera. Mio fratello Luigi e io conduciamo insieme la società, e abbiamo imparato molto da mio padre…

Lei in famiglia non è stata trattata in modo diverso rispetto a suo fratello?

Gilardi. Assolutamente no, sono la primogenita, par condicio e pari opportunità con un fratello di grande valore.

Quindi era già destinata a entrare nella azienda di famiglia?

Gilardi.Sì, e con molto piacere, una mission in cui mio padre ha saputo coinvolgerci (senza imposizioni, naturalmente), mangiamo “pane e polizze” da sempre. A 16 anni correggevo l’house organ di Uca. Appena entrata in azienda ho lavorato in archivio, all’assunzione contratti, alla contabilità (proprio la sottoscritta, per la quale la matematica è un’opinione…) facendo esperienza sul campo in settori non sempre congeniali alle mie attitudini: difficoltà superate grazie all’aiuto e alla pazienza dei collaboratori. Mi sono cimentata anche in ruoli e realtà diverse (dove non ero più la “figlia di”), anche non strettamente assicurative, perché mettersi in gioco è necessario. Nelle mie esperienze ho spesso percepito, se non proprio toccato con mano, la disparità di trattamento tra sessi: in agenzia le ragazze al front office venivano incaricate delle incombenze meno qualificanti e dunque sottovalutate, o comunque trattate in modo irrispettoso del loro lavoro, e peggio della loro dignità. Vessazioni che, spiace dirlo, non ho visto infliggere solo da parte dei maschi. È stata una lezione per impegnarmi e far crescere attraverso la qualificazione formativa le risorse femminili, per cambiare il modo di pensare ed eliminare atteggiamenti discriminatori. Uca è una piccola realtà, ma su 40 dipendenti e un dirigente, i due terzi sono donne, 15 hanno posizioni che si possono considerare elevate (quinto/sesto livello) e le mie “braccia destre” sono persone di grande competenza, di cui tre già funzionarie, pur giovani anagraficamente parlando.

Alletto.Ho cominciato nel 1994 con Genertel, costituita proprio in quell’anno. Ho partecipato alla start up, una compagnia diretta, giovane, nata senza portarsi dietro una storia tutta maschile. Ho iniziato proprio nel call centre, ci sono stata pochissimo ma è stata una esperienza preziosa, perché mi ha permesso di conoscere approfonditamente sia i processi sia il cliente. Allora eravamo meno di dieci persone in un appartamento, adesso con Genertel e Genertellife contiamo 1.000 dipendenti. La crescita in questi 18 anni ha creato spazi rilevanti di sviluppo professionale per tutti, anche per molte donne, benché gli uomini siano più riluttanti a vedere nel moderno contact centre una porta di ingresso, magari di primo impiego, per accedere ad altre mansioni, come policy di Genertel. Ma che cosa accade quando le donne possono accedere, in qualche modo, a uno sviluppo della carriera? Si trovano ad andare incontro a grandi difficoltà nella gestione della vita familiare, che è in Italia un problema esclusivamente femminile. Quando mi chiedono: “come fa a conciliare la vita familiare con la carriera?” Io rispondo: “Questa domanda l’ha mai fatta a un uomo? No? E allora si chieda perché non l’ha mai rivolta a un manager uomo e provi a darsi una risposta”. E allora il tema della disuguaglianza, delle disparità di genere esce dall’area strettamente professionale e diventa culturale. Ho visto in questi anni molte colleghe in qualche modo fermarsi o fare un passo indietro per l’impossibilità di armonizzare famiglia e lavoro, perché la casa, la cura dei figli, la vita domestica restano a carico delle donne e non degli uomini.

Che doti devono avere le donne per riuscire a conciliare i due campi?

Alletto.Bisogna essere bravissime, ovvio. Battute a parte, occorre un grande impegno, grandi capacità, che però non riguardano il genere, sono maschili quanto femminili. Le donne in più devono riuscire a fare le equilibriste tra impegni di ufficio e di casa.

Quindi l’equilibrismo…

Alletto. Fondamentalmente sì. Organizzarsi per poter portare avanti entrambe le cose è molto impegnativo. Penso che lo sia nel campo assicurativo come in tutti gli altri settori produttivi. L’unico esempio positivo di pari opportunità si trova nei paesi del Nord Europa, dove le donne sono in posizioni rilevanti sia in politica sia nell’impresa, oppure gli Usa. Nel resto dell’Europa siamo messi abbastanza male…

D. In Svezia e Danimarca ci sono più strutture che aiutano le mamme, come gli asili aziendali…

Alletto.Certo. Ma non si tratta solo di strutture, è proprio un tema culturale. Nel Nord Europa, è considerato naturale che un uomo stia a casa a curare i figli se la moglie sta facendo un percorso di crescita impegnativa, ed è altrettanto naturale il contrario, così come una divisone tra i coniugi dei carichi domestici. Da noi, ma anche i Germania, Francia, Spagna, le cose vanno diversamente e i casi di padri che hanno chiesto il congedo parentale sono rarissimi.

Corna Pellegrini. Sono entrata nel mondo assicurativo da un anno. E sono stata scelta per la mia esperienza trentennale in diversi settori, ma anche perché donna. Provengo da mondi completamente diversi, ho trascorso i primi otto anni di carriera nel marketing dei beni di largo consumo (Henkel), seguiti da un’esperienza come direttore sales e marketing in Europ Assistance di quasi cinque anni, e da 13 anni nel farmaceutico (Novartis Consumer Health, direttore marketing e poi direttore generale; Zambon Pharma, direttore generale mondo e ceo Italia), e da tre come consulente di strategia nel mondo salute. Poi è arrivata l’offerta di Mondial Assistance, che da qualche mese è diventata Allianz Global Assistance. Mi interessava entrare in un campo dove ero già stata, ma nel quale capivo che c’era ancora molto da portare e da sviluppare. In particolare è un settore, l’assistenza, in cui la fase di approccio al consumatore finale non ha ancora espresso tutto il suo potenziale, è un business prevalentemente b2b e poco b2c e credo che grazie alla mia lunga esperienza nel marketing io possa dare un contributo significativo nello sviluppo di una cultura customer focused. Mi intrigava inoltre entrare in un’azienda che voleva realizzare un importante piano di rilancio, ma anche far parte di Allianz Global Assistance, gruppo multinazionale a livello mondiale.

Le società multinazionali hanno più attenzione alle competenze femminili?

Corna Pellegrini. Negli ultimi anni le società multinazionali hanno senz’altro avviato progetti interessanti per garantire la cosiddetta diversity inclusion e raggiungere un buon equilibrio tra i generi, ma molto è ancora da fare per rafforzare la presenza femminile nelle posizioni di vertice. Io sono stata fortunata, ho iniziato la mia carriera in Henkel, dove ho avuto un capo donna che mi ha fatto diventare dirigente a 28 anni, tanto per smentire le leggende che le donne non aiutano le altre donne a fare carriera. E io ho fatto lo stesso: in 30 anni ho selezionato e fatto crescere diverse giovani donne (oltre che uomini). Per esempio: da quando sono arrivata in Allianz global assistance (ottobre 2011), dall’11% di donne dirigenti (sostanzialmente solo io) siamo passati al 36%, ho assunto una donna direttore marketing e una direttore risorse umane. Adesso siamo in tre nel comitato esecutivo su otto membri. Sono convinta che questo rappresenti un volano positivo, che possa dare forza e fiducia alle altre donne: se il capo è donna, e ce l’ha fatta, vuol dire che si può fare e vale la pena provarci. Il role modelling è importante e le quote rosa proprio in questo senso vanno concepite e sostenute. Personalmente le vivo come uno strumento temporaneo necessario per accelerare un cambio culturale, che può essere di aiuto a condizione però che venga garantito sempre un approccio meritocratico. Non ho mai pensato «Voglio una risorsa femminile», ho svolto selezioni rigorose e sopra le parti, ma devo ammettere che ho trovato molte donne in gamba e spesso più preparate e determinate degli uomini. Se da una parte è importante aumentare la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle aziende per influenzare le scelte anche nel campo della diversity, dall’altra però bisogna permettere alle donne che lavorano di arrivare a posizioni di middle e top management; perché ciò sia possibile oltre all’impegno delle aziende serve una politica della famiglia che dia un sostegno economico e pratico alle donne (e agli uomini) che vogliono avere figli.

Si tratta di un modello di managerialità al femminile che però non si è ancora affermato completamente. Come mai?

Corna Pellegrini. In generale trovo, giudicando ovviamente dalla mia realtà, che il settore assicurativo sia un po’ autoreferenziale, che le persone siano nate e cresciute nelle compagnie e soprattutto gli uomini vivano talvolta di stereotipi. Per esempio, il capo deve essere direttivo, autoritario, decisionista. Lo stile più partecipativo, inclusivo, che punta sul lavoro di squadra, che tende a facilitare l’espressione delle opinioni da parte dei collaboratori per poi utilizzarle al meglio per prendere le decisioni, stile prettamente femminile, è davvero poco presente. E non viene sempre compreso, nemmeno dai collaboratori. Si devono usare naturalmente più stili di leadership, diversi a seconda del momento e degli interlocutori e io stessa nella mia carriera ho dovuto fare ricorso talvolta a un approccio direttivo, per esempio in momenti di forte cambiamento aziendale, ma nei miei 30 anni di esperienza lavorativa lo stile di leadership che mi ha permesso di raggiungere i risultati migliori e più sostenibili nel tempo è stato proprio quello più “femminile”, ossia quello partecipativo e inspiring. Avere la squadra che ti segue perché condivide il tuo progetto, partecipa perché sente di poter dare il proprio contributo, ha voglia di buttare il cuore al di là dell’ostacolo, perché ci mette anche la parte emozionale - l’intelligenza emotiva che gli uomini faticano a tirar fuori -, paga senz’altro a livello di risultati: perché le persone lavorano con una determinazione e una passione ben diverse rispetto a quando ricevono imposizioni. In tutti i settori però, ai vertici delle aziende ci sono uomini nel 90-95% dei casi, quindi le lenti con cui viene valutata la leadership femminile sono quelle maschili. È questo il nostro problema, il modello. Il che non vuol dire che il sistema tradizionale sia sbagliato, significa che c’è anche un altro modello ed è importante la compresenza di stili diversi, che insieme danno maggior valore aggiunto. La ricchezza e il valore della diversità stanno proprio nella complementarietà delle esperienze, delle competenze, delle culture , dei modi di guardare e fare le cose. E non è un caso che le migliori aziende per risultati tra le 500 Fortune siano quelle in cui è stato raggiunto un buon equilibrio tra i generi e in particolare quelle gestite da donne, come ha rilevato un’inchiesta negli ultimi anni. Anche l’eticità è maggiore in quelle a guida femminile, e questo è una garanzia per la sostenibilità del business e dei risultati nel lungo periodo.

Alletto.La diversità fa sempre paura, crea timore, perché prevede canoni di gestione non consueti o perché, banalmente, non si sa come affrontarla. Però i tempi che stiamo attraversando impongono alle aziende di ogni settore di prestare ancora più attenzioni al cliente e meno a quello che sta sulla scrivanie. E questa attitudine all’ascolto, a mettersi un po’ nei panni del consumatore, la ritrovo più facilmente nelle donne. E, indipendentemente da ogni questione di genere, è un’esigenza delle aziende moderne.

Balla. Infatti le multinazionali non adottano il diversity management per essere più «gentili»: evidentemente ci sono dei ritorni in termini di performance del business. È un po’ come la customer satisfaction: non si vuole essere buoni con il cliente, ma renderlo soddisfatto per tenerselo ben stretto, farlo tornare e acquistare di più. Studi condotti negli Stati Uniti mostrano che le società con una migliore rappresentanza femminile nei propri board hanno performance migliori in termini di Roe fino al 30% in più. Il problema è che la diversity mette in discussione il modello attuale del management, per quello è difficile cambiare.

E lei, Fabris, quali problemi ha incontrato?

Fabris. La mia è stata una carriera tutta interna al gruppo, iniziata 30 anni fa probabilmente in un periodo in cui la mobilità interaziendale non era così frequente, soprattutto per una donna. Ho cominciato in Unipol, in area tecnica, in cui ho ricoperto diversi ruoli, fino ad arrivare nel 1994 in UniSalute. Oggi ricopro la carica di direttore operativo, dopo avere avuto ruoli di responsabilità in tutti i settori dell’azienda. Nel mio percorso di crescita le difficoltà non sono mancate e non mi riferisco solo agli aspetti familiari: ritengo che la necessità di conciliare lavoro e famiglia sia la normalità per qualunque donna che lavori. Tenere insieme la famiglia, aiutare i figli, e soprattutto convivere con i sensi di colpa, se tutto non funziona perfettamente, è una delle cose con cui noi tutte dobbiamo fare i conti, considerando che l’impegno sul lavoro non può che essere sempre al massimo. Le vere difficoltà sono state in azienda, proprio perché i modelli aziendali sono prevalentemente modelli maschili, e questo oltre che portare le donne a replicarne le modalità, porta i colleghi a rendere più facile far squadra; la presenza delle donne in certi tavoli o in certi ruoli decisionali è sempre molto limitata e quindi poco frequente è la possibilità di confrontare e realizzare modelli più femminili e soprattutto di “far squadra”. Un aneddoto che posso raccontare, che risale agli inizi della mia carriera, riguarda le riunioni tecniche che si tenevano in Ania, per i grandi rischi. Per molti anni sono sempre stata l’unica donna a partecipare a quelle commissioni; il fatto che fossi l’unica donna, mentre da un lato testimoniava la particolarità di Unipol, dall’altro denotava a tal punto l’impreparazione del mondo assicurativo a queste presenze, tanto da non avere previsto i bagni per le donne. Con evidenti situazioni imbarazzanti.

D. La crisi aiuta le donne?

Fabris. Non credo che sia la congiuntura economica a rendere diverso il mondo del lavoro, ma è proprio il business assicurativo a essere cambiato; adesso il cliente è al centro delle attenzioni e delle politiche di prodotto, le aziende devono contenere i costi, accrescere l’efficienza, tutte cose che le donne, proprio per ruolo e propria forma mentis, sanno fare molto bene. Per esempio, Unisalute è composta da 530 persone e più della metà sono donne, molte delle quali lavorano nel nostro call centre liquidativo. La grande presenza delle donne è dettata dalla maggiore propensione delle stesse all’ascolto, all’attenzione per l’altro e alla stessa gestione dei conflitti, che, come si può immaginare trattando noi temi così privati e delicati come la salute, coinvolgono gli aspetti emozionali più forti. La dote prettamente femminile di non sovrastare l’altro, farlo esprimere e accettare il confronto, cercando di arrivare a una spiegazione condivisa più che a una decisione forzata, spiega l’alta presenza femminile, ma non è affatto escluso che queste stesse doti, se aggiunte a una consolidata preparazione, non possano essere d’aiuto nelle aziende anche a livelli decisionali e strategici. Proprio adesso il nostro gruppo sta adottando modelli di valutazione che, partendo dalle diverse caratteristiche del mondo maschile e di quello femminile, tendono a valorizzare quest’ultimo, dando spazio alle capacità professionali e valoriali delle donne nel mondo del lavoro. È una iniziativa importante, un investimento per il presente e soprattutto per il futuro, ma credo che ci sia ancora bisogno di un ulteriore sforzo, perché le donne possano emergere. A parità di doti, le aziende continuano a preferire i maschi: più ci si avvicina a importanti ruoli di responsabilità, più prevalgono i modelli maschili; in alcuni casi si continua a temere che la donna possa non tenere il ritmo richiesto dall’azienda, scegliere la famiglia o non reggere alle situazioni stressanti e, visto che spesso a scegliere sono i maschi, si preferisce una scelta nel segno della continuità.

Gilardi.Ma resterà un mondo ancora maschile, se per prime noi che siamo attorno a questo tavolo - e che nei rispettivi ruoli siamo ai vertici o ricopriamo cariche di rilievo - non riusciremo a dare maggiore spazio alle donne, a fare passare il concetto che esistono modelli manageriali femminili e per questo diversi, che rappresentano un vero e proprio valore aggiunto. Solo innovando i modelli possiamo sconfiggere i pregiudizi e quanto ne consegue. Senza contare che solo camminando a braccetto con “l’altra metà del cielo”, arriveremo alla meta. Da sole, noi donne rischiamo a nostra volta di smarrire la strada e incorrere negli stessi errori di chi ha imposto modelli manageriali maschili o comunque dominanti.

Balla.In realtà non ho faticato molto all’inizio, ho dato il massimo, le cose mi sono arrivate e ho avuto una carriera relativamente veloce per il contesto italiano. Io vengo da Tim, che quattro anni fa ho lasciato per andare a fare qualcosa di assolutamente diverso, in una azienda che non aveva il marketing. L’impatto forte non è stato tanto con la struttura del management quanto con le peculiarità del settore in sé. Le compagnie sono un mondo in cui l’organizzazione è senz’altro meno marketing driven rispetto ad altre industrie; ci si esprime con il proprio linguaggio che io chiamo scherzando “assicuratese”, tecnico e particolare, che devi imparare rapidamente per farti capire. Lo stile manageriale è tendenzialmente tradizionale, con modelli propri, con i quali chiaramente ho imparato a rapportarmi per raggiungere gli obiettivi, comunque combinandolo con il bagaglio personale e delle precedenti esperienze.

Mi sembra di capire che il suo percorso di crescita è stato più semplice…

Balla. Direi che si è semplificato con il tempo e con la crescita dell’organizzazione. Al momento dell’assunzione stavamo creando il marketing da zero, venivo da un altro settore, ero la più giovane e l’unica donna nel comitato di direzione di Metlife. Adesso nel comitato siamo in tre su otto, per natura le forze si redistribuiscono diversamente, e i modelli e le dinamiche di interazione si sono naturalmente modificati. Il contrappeso è più forte, la condivisione è maggiore. Uno sviluppo automatico che non pesa neppure a chi sta dall’altra parte. Detto questo, resta il fatto che una donna per fare carriera deve essere determinata il triplo di un uomo e combattere quotidianamente con una cultura che ci espone a più difficoltà…

In che senso?

Balla.In generale, nella società, continua a esserci una mentalità fortemente ancorata ai ruoli maschili, derivante da vecchie e obsolete visioni del mondo, della struttura della famiglia e dei rapporti tra i sessi. Io sono manager da sei anni. Il mio compagno lavora all’estero, è perennemente in viaggio e io non l’ho seguito, perché ho fatto le mie scelte professionali. E tutti mi dicono: perché non vai anche tu? A me sembra che sia abbastanza naif che me lo chiedano, perché comunque sanno che sto facendo il mio percorso di crescita qui. C’è, però, l’idea che in una coppia sia l’uomo a guidare e quindi la donna debba seguire lui, sempre e comunque. Poi, spiegando le mie ragioni, chi mi “rimprovera” riesce a capirmi. Ma è questa la cultura del mondo che ci circonda. Un altro nodo centrale è la maternità: spesso le aziende non credono che una donna manager continui a portare valore all’azienda una volta avuti dei figli; di conseguenza hanno più remore a investire su una donna tra i 30 e i 40 perché presumono di avere un minor rendimento e minore dedizione al lavoro per via dei figli. Un timore questo che spesso viene anche esplicitato senza troppo imbarazzo. Ma mi chiedo: com’è possibile considerare la maternità come un tradimento, soprattutto adesso, con internet e smartphone che permettono di essere sempre connessi con il lavoro? Ho visto molte manager che allattavano e lavoravano tranquillamente a distanza. Il problema, naturalmente, non è tecnologico, ma culturale. Nei paesi scandinavi c’è una totale condivisione del congedo parentale tra madre e padre anche agli alti livelli delle organizzazioni. Io ho avuto colleghi che hanno preso un congedo, ma sono stati giudicati come “poco dediti al lavoro”, spesso dalle stesse donne. È questo comune modo di pensare che dobbiamo sconfiggere per arrivare alla parità. Ci vorrà tempo e anche supporti “concreti” a sostegno della mamma che lavora. Intanto, nelle aziende, cerchiamo di motivare e di far crescere le donne in tutte le famiglie professionali, in modo che non debbano fare troppi salti mortali per avanzare nella carriera. Promuovere e sostenere le risorse valide, maschili o femminili che siano, fa parte degli obiettivi del management… se poi sono donne, sembra pure che ci siano effetti positivi sul business in sé stesso e sul sistema sociale in generale.

Fumagalli. La mia carriera ha seguito uno sviluppo prettamente internazionale: dopo un’esperienza a New York, ho lavorato a Londra per sette anni. Ho lavorato anche in banche d’affari, che per certi versi hanno un’innata caratteristica maschile, ma certe tematiche non mi hanno neppure sfiorato. Per una decina d’anni mi sono sentita “asessuata”.

Asessuata?

Fumagalli. Ero molto concentrata sul lavoro. I risultati e i riconoscimenti arrivavano perché ero brava, non in quanto donna. Le competenze e le abilità facevano la differenza, non il genere. Non riuscivo neppure a immaginare che si facessero delle avances sul luogo di lavoro…

Negli uffici americani e inglesi c’è più parità, più rispetto?

Fumagalli. Assolutamente sì, è un mondo distante anni luce dal nostro. Me ne sono accorta quando, per ragioni personali, sono tornata in Italia e ho dovuto, purtroppo, prendere atto di una situazione di evidente discriminazione. Nonostante si parli molto e da molto tempo di pari opportunità, le statistiche continuano a registrare un ritardo del nostro paese a livello di occupazione, stipendi, possibilità di carriera per le donne. Bnp Paribas punta molto sulle donne, crede davvero nella diversity al punto di farne un proprio punto di forza, valorizzando le risorse femminili e promuovendo le pari opportunità in pura logica meritocratica. Nonostante ciò, esiste ancora un potenziale di miglioramento perché, a oggi, sono l’unica donna nel consiglio di amministrazione mentre nel comitato esecutivo, che si tiene ogni lunedì a Parigi, siamo in due su 11 membri. In Italia resto ancora l’unica donna ai vertici delle 16 società di Bnp Paribas presenti nel nostro paese. In Cardif tuttavia il 50% delle risorse umane è femminile e a un certo punto si raggiunse il 60%, rendendo necessario un riequilibrio. Pur essendoci molte mie colleghe con posizioni di responsabilità, vorrei stimolarne più l’ambizione, perché aumenti la loro presenza nelle posizioni dirigenziali. Mi sono chiesta spesso come si possa migliorare la situazione. Non è semplice. La famiglia è un grande freno. Io sono stata agevolata per due motivi: sono diventa mamma di due bambine quando già ero amministratore delegato e mio marito è per metà tedesco, lontano, cioè, dalle abitudini del maschio medio latino. Così ci siamo divisi gli impegni familiari esattamente a metà: lui si occupa delle figlie il lunedì, mercoledì e venerdì, io negli altri giorni; recite, sport, compiti e festicciole le seguiamo al 50%. Non sarebbe possibile fare altrimenti, perché non si può esagerare con il multitasking. Sono molto aiutata e vivo gli impegni familiari con più leggerezza. Un altro ostacolo, che ho riscontrato solo in Italia, è la concezione della posizione come potere, non come premio per il merito, da cui conseguono il cameratismo, le cordate dei manager uomini, e magari scelte errate pur di mantenere o conquistare una poltrona. Ci si trova, volenti o nolenti, in un meccanismo dove esprimere la propria opinione diventa a volte arduo, se non rischioso. Io ho sempre espresso le mie opinioni anche se le convenienze avrebbero suggerito di non farlo, ma non potevo tradire la mia missione. Sono convinta che la donna, se non cede alle logiche di gruppo, rimanga concentrata sul perseguimento dell’obiettivo. Ha più facilità ad affrontare certi temi, in particolare il change management, perché è più abituata dell’uomo a cambiare e a mettersi in discussione. E questa è una grande opportunità, perché significa anche prendersi miglior cura del cliente. Le manager che hanno raggiunto certi livelli di responsabilità si dividono in due grandi categorie: quelle che stanno bene nella loro pelle sono il non plus ultra perché riescono a trasmettere serenità, umiltà, spirito di collaborazione, fattori che uniscono le persone grazie a un effetto automatico di empowerment; altre riversano sugli altri le difficoltà che hanno attraversato per raggiungere la loro posizione, e sono davvero tremende...

L’Unione Europea si è espressa a favore delle «quote rosa»: che cosa ne pensate? E che conseguenze potrebbe avere il 40% dei posti nel consiglio di amministrazione riservato alle a donne?

Fumagalli.L’intervento legislativo serve per dare l’abbrivio a una situazione incancrenita, ma non può assolutamente sostenere una dinamica che deve restare naturale. Non si alimenta un ciclo virtuoso introducendo ope legis più donne, bensì se la normativa verrà affiancata da meccanismi di motivazione, formazione, che preservino le caratteristiche che hanno portato voi ai vertici; non parlo di me perché mi sento facilitata dal percorso intrapreso. Esempi di manager al femminile di successo aiuterebbero, ma in Italia sono pochi. E da noi, inoltre, le ragazze sono più esposte alle lusinghe degli uomini e devono essere ancora più accorte nel gestirle. A Londra si segue un dressing code: gonna sotto il ginocchio, camicia abbottonata fino al collo. Difficile immaginare lo stesso in Italia, dove la moda impera.

Fabris. Possono essere uno stimolo: se la normativa inoltre non sarà circoscritta solo ai consigli di amministrazione ma si estenderà in generale alle aziende, senza ovviamente mettere in discussione la meritocrazia, potrà essere un passo avanti. L’importante è che le donne scelte siano preparate, non inserite nei ruoli per convenienze; avrebbero infatti una grande responsabilità nei confronti del mondo del lavoro femminile: una donna preparata che fa carriera perché lo ha meritato è un grande stimolo per le altre e un ottimo modello.

Gilardi. Ogni cosa va bene se rompe il monopolio maschile. Ma, come è già stato detto, è anche un problema culturale, che non si supera per legge e neppure nel breve periodo. Il nostro esempio conta, perché dimostriamo, praticamente, che i carichi di famiglia si possono condividere tra moglie e marito, che la donna manager è affidabile anche se fisicamente non ha i cosiddetti attributi, ed ha caratteristiche peculiari e differenti. Ma non basta, occorre fare “più lobby” ed educare le nuove generazioni a essere, e sentirsi, libere di realizzare i propri progetti di vita nella carriera e nella maternità, in famiglia o single. Del resto credo che la società, per fortuna, stia andando consapevolmente verso una maggiore parità e le nostre figlie e le nostri nipoti troveranno meno difficoltà. Anche grazie a noi.

Alletto.È una novità importante, non decisiva per sconfiggere il maschilismo, annullare le disparità di trattamento. Ci sono altre azioni che ritengo indispensabili. Proprio perché sono rare le donne in cariche importanti, da prendere da esempio e da mentore, le manager che ce l’hanno fatta devono impegnarsi ad aiutare le italiane a credere nelle loro possibilità di carriera. Ci sono molte iniziative di “promozione” delle donne, io partecipo a una che interessa le studentesse delle scuole superiori. Io credo che sia fondamentale esserci, portare i nostri modelli, le nostre esperienze.

Non per narcisismo, naturalmente, ma per stimolare nelle ragazze la sicurezza nei propri mezzi, sperando che loro facciano meno fatica della nostra generazione ad affermarsi anche sul lavoro.

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