di Antonio Salvi*
Bravo Obama, ancora una volta è riuscito a copiare gli europei - e noi italiani in particolare - in quello che siamo particolarmente bravi a fare: traccheggiare. E così anche negli Usa si è dovuto attendere gli ultimi quattro giorni dell'anno - e un precipitoso rientro dalle vacanze del presidente Usa - per cercare di raggiungere affannosamente un accordo volto a evitare il cosiddetto «fiscal cliff».
Come noto, si tratta di un aumento delle tasse e dei tagli alla spesa che si abbatterà sul 90% delle famiglie americane, qualora non si trovasse un'intesa sul tetto al debito pubblico entro l'ormai imminente fine dell'anno. Il mancato accordo potrebbe ridurre il pil statunitense di circa 4 punti percentuali per il solo 2013, generando pertanto una seria recessione. Il segretario al Tesoro, Timothy Geithner, ha reso noto che il tetto del debito (16.400 miliardi) sarà raggiunto il 31 dicembre e non nel 2013. Se quindi non ci sarà un accordo, il 2 gennaio il Tesoro adotterà misure straordinarie per rinviare il default del Paese. L'obiettivo, ora, è prendere tempo, con un intervento da 200 miliardi, ma non è chiaro per quanto tempo le misure straordinarie resteranno in vigore. La tattica del «prendere tempo», però, non è stata finora immune da conseguenze. Il costo dell'indecisione ha infatti già prodotto effetti negativi. Una riprova di ciò? La fiducia dei consumatori americani è crollata a dicembre ai minimi da agosto, proprio a causa delle preoccupazioni sul «fiscal cliff». Il dato è sceso a 65,1 punti e quello di novembre è stato rivisto al ribasso a 71,5, rispetto al 73,7 precedente. I tempi lunghi di Obama confliggono con quelli brevi dei mercati e delle famiglie americane, a quanto pare. E l'Italia? Quali potrebbero essere le conseguenze del mancato accordo sulla nostra economia? L'Italia è il quindicesimo fornitore americano. I settori principali delle nostre esportazioni verso gli Usa sono meccanica, moda e agroalimentare, con percentuali rispettivamente del 21,1 del 14,7 e del 10,3%. A rischiare di più è dunque la meccanica strumentale: circa 6mila aziende concentrate nel Centro-Nord, pari a circa al 2% del Pil italiano.
Poi vengono abbigliamento, calzature e alimentare. Il segmento del lusso e dell'abbigliamento di alta gamma, però, tendono a resistere meglio alle crisi e presumibilmente preoccupano meno. Fiat, invece, potrebbe subire importanti conseguenze. A giugno le vendite dell'azienda torinese negli Usa hanno registrato un aumento del 130%, vale a dire la migliore performance dell'intero gruppo Chrysler, cresciuto di suo del 30%. Sul nuovo mercato Usa e sulle avvisaglie di una ripresa economica, il management italiano ha focalizzato ampia parte della strategia della casa automobilistica.
*Preside Facoltà Economia
Università Lum «Jean Monnet»
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