Il fondo «vichingo» finisce in rosso

Prima perdita per l'investitore sovrano leader mondiale, socio di vari gruppi italiani

La tempesta perfetta creata dalla bolla immobiliare, più il crollo dei prezzi del petrolio, più i bassi tassi di interesse sta scuotendo il fondo sovrano norvegese. Ma se la nave vichinga affonda, l'onda rischia di arrivare fino alle spiagge di Piazza Affari.

Il più grande fondo sovrano al mondo è finito in rosso. Nel senso che ha registrato il suo primo rendimento trimestrale negativo (-0,9%) da tre anni. A fine giugno, il fondo ha segnato un valore di 6.897 miliardi di corone (753 miliardi di euro a prezzi correnti). Lo Stato norvegese ha iniettato 12 miliardi di fatturato petrolifero, ma i trasferimenti finanziari sono ancora molto lontani dalla media degli ultimi dieci anni. Il problema è che il fondo è alimentato dai proventi dell'estrazione del petrolio e del gas norvegese e ha un patrimonio investito circa al 60% in azioni, al 34,5% in reddito fisso e al 5% nel mattone. Gli investimenti in bond hanno avuto un rendimento negativo del 2,2% nel secondo trimestre.

Poi c'è la bolla immobiliare: come spiega Mauro Bottarelli sul blog finanziario Rischio Calcolato , in Norvegia il prezzo degli appartamenti è aumentato di sette volte rispetto al 1992 ma nonostante questo il mese di giugno ha registrato un numero di vendite record. Una corsa all'acquisto facilitata anche dai bassi tassi di interesse, visto che la Banca centrale ha tagliato il costo del denaro due volte dallo scorso dicembre, arrivando oggi al minimo storico. Si sono infine aggiunti i deficit fiscali creati dal petrolio ai minimi: per tamponarli la Norvegia potrebbe avere bisogno di prelevare soldi dal Bancomat del suo fondo sovrano. Peccato che questo abbia in portafoglio 500 miliardi in azioni: «Chi si farà male se deciderà davvero di cominciare a liquidarle?», si chiede Bottarelli.

La risposta ci interessa. Perché come ha ricordato di recente il governatore della banca centrale norvegese (nonchè numero uno del fondo), Oystein Olsen, la quota di titoli made in Italy vale il 2,6% degli investimenti effettuati dal fondo attraverso il suo braccio operativo la Norges Bank e il peso dell'Italia è superiore a quello degli altri Paesi europei allineati in media, attorno al 2,4 per cento. Da Oslo hanno piazzato pedine un po' ovunque tra le blue chip nostrane: dal 2,55% di Finmeccanica, al 2,16% del Banco Popolare passando per il capitale di Intesa Sanpaolo (con poco più del 2%).

E qualche movimento si vede già: il 7 agosto scorso Norges ha comunicato alla Consob di essere in possesso del 2,145% del capitale di Unicredit, tre giorni dopo (10 agosto) è però scesa sotto la soglia rilevante attestandosi all'1,69% del capitale. Ecco perchè a Piazza Affari un'eventuale ritirata vichinga fa paura.

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