Plaudo a quel giudice del tribunale di Vicenza che si è rifiutato di ricorrere, nello stendere la propria sentenza, alla parola «fallito» in riferimento a un imprenditore la cui azienda versa in stato di insolvenza. Un sussulto umano prima che professionale in un Paese dove il titolare di un'impresa in grave sofferenza si trova anche a dover fare i conti con l'onta di un termine così spregiativo. Una vera umiliazione che ne mina l'autostima. Come dimenticare l'elevato numero di imprenditori che negli ultimi anni sono sprofondati nella disperazione, anche fino all'atto estremo del suicidio. Nella mia attività di consulente d'impresa spesso mi trovo di fronte imprenditori in profonda crisi di identità, prima che economica. Che si vergognano della propria condizione. Che non osano più guardare in faccia moglie e figli. Un Paese serio non dovrebbe accettarlo. Uno può anche aver amministrato molto male la sua azienda ma ciò non giustifica le forche caudine dell'accanimento lessicale (chissà perché quando fallisce una grande azienda si ricorre a termini più edulcorati). Un vero e proprio marchio d'infamia. So dell'esistenza di un disegno di legge che impegna il governo a riformare la disciplina della Legge Fallimentare sostituendo l'espressione «fallimento» con il termine «liquidazione giudiziale». Bene! Perché non è una questione nominalistica, ma di sostanza. E poi, naturalmente, occorrerà che la riforma esprima finalmente un radicale cambio di prospettiva, attuando per l'imprenditore smarrito e sfiduciato un cammino ragionevole e che tuteli tutte le realtà coinvolte. Non ha senso continuare con la pratica dell'esercizio punitivo.
Un atteggiamento del tutto incomprensivo che ha tagliato definitivamente le gambe all'imprenditore insolvente. Gli si conceda una seconda chance. Di più: lo si aiuti a intraprendere un nuovo percorso, nell'interesse di tutti. www.pompeolocatelli.it- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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