Nel giro di quasi sei mesi Veneto Banca ha già vissuto tre rivoluzioni: la prima risale al 19 dicembre del 2015 quando più del 97% degli azionisti presenti in assemblea - quasi settemila di persona, con cinquemila deleghe - ha detto sì alla fine di una storia Popolare segnata dalle cicatrici della gestione Consoli trasformando l'istituto in una spa. A traghettare verso la Borsa la banca, dopo una necessaria «cura ricostituente» da 1 miliardo, avrebbe dovuto essere il nuovo tandem composto dal presidente Pierluigi Bolla e dall'ad Cristiano Carrus, con il placet della vigilanza europea. Ma il 5 maggio a Marghera si è consumata un'altra rivolta: l'assemblea convocata sul rinnovo del cda boccia la lista di maggioranza capitanata da Bolla e vota quella alternativa composta dall'Associazione Azionisti Veneto Banca e Per Veneto Banca, accusata da Bolla di rappresentare soci che «sono o fanno parte di gruppi economici clienti della banca, in taluni casi debitori per importi anche significativi». Nel caso dell'associazione «Per Veneto Banca», Bolla parla di un'esposizione totale pari a 958 milioni di euro, di cui 730 milioni di crediti problematici e 382 milioni di crediti deteriorati.
Il verdetto assembleare però è sovrano. Stefano Ambrosini, super avvocato d'affari torinese che in passato ha vinto cause importanti tra cui quella contro gli ex amministratori di Alitalia, diventa presidente. Carrus resta al timone operativo come direttore generale plenipotenziario. Il 7 maggio il cda nomina come vice presidente Giovanni Schiavon.
Intanto l'ottimismo manifestato fino a pochi giorni prima dell'assemblea, dai vertici di Intesa - capofila del consorzio di garanzia dell'aumento di capitale dell'istituto veneto - comincia a vacillare. Anche perché il salvataggio di Montebelluna avviene sotto la stretta sorveglianza della Bce che il 5 maggio, con una lettera, aveva invocato una governance adeguata «per assicurare la sana e prudente gestione della banca» in quanto le debolezze derivano» in primo luogo, secondo Francoforte, «dalla povera qualità degli attivi accumulati negli anni passati e dalle carenze dei controlli interni».
E arriviamo all'ultima rivoluzione: martedì scorso il cda ha chiamato in soccorso il fondo Atlante, che ha condizionato il proprio intervento al possesso di almeno il 50,1% della banca fissando il prezzo minimo dell'offerta di nuove azioni a 10 centesimi, lo stesso dell'operazione sulla Vicenza. Per arrivare in Piazza Affari servono però altri 250 milioni in modo da garantire la soglia dei flottante (25%) richiesto da Borsa Italiana. L'aumento parte l'8 giugno, chi ce li metterà? I piccoli azionisti che si sono già visti azzerare il valore dei titoli in portafoglio? Una cordata di imprenditori locali? I soci, in realtà, sembrano essere più impegnati a farsi la guerra: il vicepresidente Schiavon ha detto che «reputazione, fiducia, raccolta e liquidità sono in continua discesa». Il presidente Ambrosini gli ha intimato di stare zitto. Nel frattempo il Corriere della Sera ha riferito di «regali» ricevuti da Schiavon dalla banca quando era presidente del tribunale di Treviso e ieri La Stampa ha scritto di richieste di consulenze per il figlio avvocato.
Schiavon minaccia querele (ai danni di chi «continua ad attaccarmi con dossier strumentali») e le sue dimissioni. Forse non ce ne sarà bisogno.
Perché con il controllo della banca nelle mani del fondo Atlante potrebbero esserci dei grossi cambiamenti al vertice con il placet della Bce. Così come sta per avvenire in casa della Vicenza dove il presidente Stefano Dolcetta sta per essere sostituito dal manager di fiducia dei Benetton, Gianni Mion. Sarà l'unico veneto in cda. Un'altra rivoluzione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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