L'industria salva l'Italia, con l'export

Per guadagnare bisogna delocalizzare. Le banche stringono i prestiti e i big puntano sui bond

Se qualcuno ancora immagina l'industria italiana come un monolite sclerotizzato, ricurvo entro i confini ristretti del mercato domestico, è meglio che inforchi nuove lenti: le nostre imprese sono capaci di competere ovunque avendo saputo per tempo delocalizzare. E così si sono salvate dalle crisi ricorrenti nel Vecchio continente e dai muscoli mostrati dall'euro fino allo scorso anno. Anche se il discorso è valido per la manifattura privata, meno per i grandi gruppi a mano pubblica, concentrati nel settore energetico e nei servizi non esportabili, e frenati dal ristagno della domanda interna. È Mediobanca, nel rapporto annuale dell'area R&S, a offrire uno spaccato puntuale del nostro manifatturiero, con alcune appendici interessanti legate al crescente fenomeno dell'emissione di bond corporate, all'età non troppo “fresca“ dei membri dei cda (58 anni la media) e all'ancora ridotta percentuale di quote rosa nei consigli (26%).

Il dato complessivo sull'andamento del fatturato 2014 è tutt'altro che esaltante, con un calo dell'1,5% sul 2013. Tutta colpa della pessima performance in Italia (-7,4%), non compensata dal +1,4% realizzato all'estero. Ma disaggregando il dato totale, vengono a galla le magagne del Pubblico, il cui giro d'affari è sceso del 4,8%, mentre i privati sono cresciuti del 2,2%. Un focus ulteriore permette inoltre di scoprire che se la manifattura ha tirato il freno nella Penisola (-0,7%), ha invece preso il volo all'estero (+6%), mentre hanno sofferto i servizi (-6,2%) e l'energetico (-4,9%). «Chi perde il treno con l'estero perde se stesso», sintetizza Mediobanca. La correlazione tra ricavi esteri e redditività è d'altra parte sempre più stretta: per i gruppi statali l'estero pesa per il 60% con un ritorno sugli investimenti (Roe) al 5,6%, per quelli privati l'estero vale un 79% a fronte di un Roe di oltre l'11 per cento.

Ma chi sono i campioni nelle vendite? In testa alla classifica, Aurelia (Gruppo Gavio) con un +23,5%, seguita da Moncler (+19,4%), Fincantieri (+15,4%) e Brembo (+15,1%). C'è però un rovescio della medaglia. Per ogni 100 euro di vendite dei grandi gruppi italiani, 34 sono prodotti in Italia (10 consumati “in casa“ e 24 esportati), ma 66 euro sono prodotti e venduti all'estero. Visto che il fenomeno del backshoring (il rientro in patria di alcune produzioni) è ancora marginale, ciò significa meno investimenti domestici e minori assunzioni. Difficile che il Jobs Act ribalti la situazione.

Anche se i big industriali pubblici non sono tra i settori più redditizi, il grosso degli utili viene ancora da loro. In testa Eni con 27,4 miliardi di euro, al secondo posto Enel con 13,2, seguita da Snam con 4,8. E il Tesoro incassa: in cinque anni ha infatti ricevuto 11,8 miliardi di dividendi contro i 6,2 miliardi riscossi dai privati (al top Luxottica con 1,1 miliardi e Prada, con 0,8).

Un altro capitolo della ricerca è dedicato alle fonti di finanziamento. Per effetto del credit crunch , il canale dei prestiti bancari si è prosciugato nel quinquennio di 12 miliardi. Così, visti tassi favorevoli, le aziende hanno compensato con l'emissione di obbligazioni per quasi 45 miliardi.

Infine, il motto «largo ai giovani» ancora poco si attaglia alle imprese, dove nei cda l'età media è di 58 anni, 12 in più rispetto al parlamento. E di pink power , neanche a parlarne: le quote rosa sono appena il 25,9% del totale, con solo il 9,5% in posizioni apicali.

Un impiegato che sogna retribuzioni da top manager, si rassegni: deve lavorare 36 anni per mettere insieme quanto il capo guadagna in 12 mesi.

È la percentuale di ricavi garantiti dall'estero alle imprese private, con un Roe superiore all'11%

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