L'inflazione Usa vola all'8,4%. Ma non è solo colpa di Putin

Il petrolio pesa, ma i prezzi salgono già da 22 mesi anche per gli errori di valutazione della Fed

L'inflazione Usa vola all'8,4%. Ma non è solo colpa di Putin

Il Putin's Price Hike, espressione di recente conio della Casa Bianca, si potrebbe tradurre un po' grossolanamente con un è tutta colpa sua. Colpa dello zar Vlad se l'inflazione si è arrampicata in marzo all'8,4% annuo, dal precedente 7,9%, riportando l'America indietro di 41 anni, quando iniziavano a soffiare i venti della reaganomics e il capo della Fed, Paul Volcker, aveva già sguainato la durlindana dei tassi per staccare la testa al carovita.

Rispetto ad allora, pure oggi i prezzi sono in fase ascensionale e il piede è pigiato sul pedale degli armamenti anche per sostenere l'economia. Le similitudini con il 1981 si fermano però qui. La genesi dell'inflazione è lo choc causato dal Covid con l'inceppamento della catena di approvvigionamenti. Con politiche ultra-espansive, Joe Biden e la Federal Reserve hanno poi contribuito ad alimentare un fenomeno che, per mesi, hanno ostinatamente continuato a considerare temporaneo. Ora, l'incremento del mese scorso dell'indice Pci è senz'altro attribuibile ai prezzi dell'energia (+11% su base mensile, +32% annuo) e a quelli della benzina (+18,3% nel mese), spinti dalla guerra in Ucraina e dalla pressione che sta esercitando sull'offerta. Non va tuttavia dimenticato che è da 22 mesi consecutivi che l'inflazione non si prende una pausa. Il Cremlino ha le sue colpe, ma Biden sembra aver trovato in Putin il perfetto capro espiatorio, un monsieur Malaussene russo in grado di cavargli le castagne dal fuoco a sei mesi da un voto di medio-termine che consensi declinanti segnalavano come un appuntamento nefasto. Fino a un paio di mesi fa, a ogni sosta per il rifornimento, torme di automobilisti incazzati rivolgevano tutte le maledizioni verso la Casa Bianca: il caro-gallone, che rischiava di costar carissimo a Sleepy Joe, ha adesso un altro responsabile.

Forse non basterà però a quietare gli americani. Non almeno quel 62% che, secondo la Nbc News, ritiene gli stipendi incapaci di tenere il passo con la galoppata dei prezzi. In un anno, l'aumento delle buste paga è stato in effetti del 5,6% e il mese scorso si è registrato un calo dello 0,8%. Le possibili rivendicazioni salariali sono la miccia d'innesco per altra inflazione e rischiano di far saltare le aspettative di almeno sei banche di Wall Street, secondo cui il picco dei prezzi al consumo è stato raggiunto proprio in marzo. Un sondaggio di Bloomberg colloca inoltre il carovita al 7,6% nel secondo trimestre e al 5,7% entro la fine dell'anno. Stime forse ottimistiche che si nutrono del lento incedere dell'inflazione core (quella che esclude cibo ed energia), salita mensilmente di appena lo 0,3% e del 6,5% su base annua, grazie alla frenata dei prezzi delle auto. Il punto è che il deprezzamento di un bene durevole non compensa i rincari del carrello della spesa (+14% burro e farina; +13% carne, pesce e latte; + 7% il pane, ecc.) con cui le famiglie devono fare i conti ogni giorno.

Wall Street (+0,3% a un'ora dalla chiusura e rendimento del T-Bond a 10 anni in ritirata dai massimi di 3 anni) non ha naturalmente di questi problemi.

E, soprattutto, interpreta le attese per un allentamento delle pressioni inflazionistica, così come l'andamento en ralenti del carovita core in un'unica maniera: la Fed eviterà strette ai tassi a cavallo dei meeting ufficiali e non sparerà un colpo di bazooka alzandoli in maggio di tre quarti di punto.

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