Politica economica

L'occupazione Usa corre e arma la Fed

A novembre creati 263mila posti di lavoro. Ora la Borsa vede più strette ai tassi

L'occupazione Usa corre e arma la Fed

Dopo sei aumenti dei tassi, per complessivi 375 punti base, il mercato del lavoro americano non dà segni di sofferenza. È come l'Ercolino sempre in piedi: tu provi a buttarlo giù, e lui si risolleva. Così almeno raccontano i 263mila nuovi posti creati in novembre, accolti dai mercati con lo stesso entusiasmo di chi riceve una cartella esattoriale. Seppure sia stato il più debole dal dicembre 2020, quel numero è un dito nell'occhio per Wall Street (-0,3% a un'ora dalla chiusura; -0,26% Milano). E non solo perché le stime sui «new jobs» si fermavano a quota 200mila, ma perché indica che la politica monetaria della Fed resterà aggressiva anche nei prossimi mesi.

Se la Casa Bianca suona la grancassa («Creati 10,5 milioni di posti di lavoro da quando ho assunto l'incarico», ha detto Joe Biden), Eccles Building vede invece la situazione complicarsi. In America si licenzia, eccome. Il mese scorso, i lavoratori messi alla porta sono stati il 138% in più rispetto a ottobre. Ma si taglia soprattutto nel settore tecnologico, dove il peso sull'occupazione complessiva è del tutto marginale e trovare un nuovo impiego non richiede tempi lunghi. Il Paese continua invece a sfornare nuovi camerieri e baristi che vanno a infoltire l'esercito delle buste paghe leggere e non perde abbastanza personale nell'industria e nel commercio. A Jerome Powell&C non sfugge poi certo un altro fenomeno: il tasso di disoccupazione è rimasto invariato al 3,7% solo a causa del calo della partecipazione alla forza lavoro (al 62,1%). Ciò rappresenta il nemico principale della banca centrale nella lotta contro l'inflazione. Un basso livello di forza lavoro significa infatti scarsa manodopera disponibile, e quindi più conco rrenza fra le aziend e alla ricerca di personale. E come si vince la partita delle assunzioni? Semplice: offrendo salari più alti. In novembre sono saliti, su base mensile, dello 0,6%, il livello più alto dell'anno. Questo andamento conferma non solo che i segnali di moderazione delle buste paghe erano provvisori, ma che si tratta di un trend fuori registro per la Fed, poiché nell'ultimo anno le retribuzioni sono cresciute in media del 5,1%. Qualche giorno fa, Powell aveva fatto il punto proprio sull'argomento: «Per essere chiari, una forte crescita salariale è una buona cosa. Ma affinché la crescita dei salari sia sostenibile, deve essere coerente con un'inflazione del 2%».

Con queste cifre sul tavolo, il timore dei mercati non è tanto legato alla possibilità che la banca centrale faccia retromarcia in dicembre sulla (quasi) promessa stretta al costo del denaro circoscritta a mezzo punto; piuttosto, il timore è che il tasso terminale possa essere alzato ben oltre il 5% finora ipotizzato.

Naturalmente, tutte queste valutazioni hanno un senso solo se ci si basa, come fa la Fed, sui numeri del Bureau of labour statistics e non sulla rilevazione condotta fra le famiglie americane.

La Household Surveys indica infatti una perdita in novembre di 138mila posti e di appena 12mila creati da marzo a novembre, periodo in cui, secondo il Bls, i «new jobs» sono stati pari a 2,7 milioni. Quale delle due Americhe è quella reale?

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