di Nicola Porro
Uno dei grandi soci di Mediobanca ha così detto al Giornale: «Nagel, almeno fino a settembre non si tocca. Chi pensa ad un blitz estivo sull'Istituto si sbaglia di grosso. I soci che contano sono oggi con lui». È evidente che il papello siglato dall'ad di Mediobanca a favore di una buonuscita della famiglia Ligresti non abbia esattamente rafforzato il numero uno di Piazzetta Cuccia. Ma da questo a ritenere che i giochi per la sua successione, ipotesi che sale e scende come il caldo di questa estate, siano fatti ce ne corre.
Un altro socio dice: «In Mediobanca, più che un amministratore delegato, semmai manca un presidente che sappia gestire rapporti non solo con la finanza milanese». I soci privati di Mediobanca, con la sola eccezione della Pirelli di Tronchetti Provera, hanno già un bel po' di guai reddituali in casa propria. È difficile dunque immaginare una loro battaglia per un cambio di management. Unicredit, il socio bancario forte, ovviamente è oggi più che mai nella stessa barca di Nagel. Sarebbe assurdo pensare di scaricarlo ora. E poi c'è il gruppo dei francesi, capitanato da Vincent Bolloré. Il finanziere bretone potrebbe avere più di un motivo per essere irrequieto. Il principale è proprio il riassetto dell'assicurazione Fonsai. Nella sua testa e nei suoi piani sarebbe dovuta finire all'assicurazione francese Groupama, che aveva studiato da vicino il dossier. Ma nelle ultime settimane, paradosso nei paradossi, Bolloré è stato uno di quei soci che più si è speso per trovare una mediazione con i Ligresti.
Due solidi imprenditori italiani che pur non avendo quote di Mediobanca sono influenti nei piani alti (Unicredit) e bassi (Generali), e cioè Caltagirone e Del Vecchio, non sono certo ostili a Nagel. I due, oltre a essere piuttosto autonomi finanziariamente, sono decisamente autonomi di pensiero, e nelle ultime ore non nascondono la scarsa opportunità di aprire una crisi al buio in quella che resta una cassaforte del nostro capitalismo.
Insomma a meno di colpi di scena giudiziari, il vertice di Mediobanca resta per ora in sella.
Più delicata la situazione nei mesi a venire. Ma non sono tanto le rivelazioni giudiziarie che preoccupano, sono i quattrini. Che mancano.
Vediamo subito qualche numero. Oggi Mediobanca capitalizza in Borsa circa 2,2 miliardi, di cui gran parte (1,8 miliardi) è il valore della sua principale controllata e cioè le Generali. Parliamo di una banca che viaggia sul filo del rasoio. Il caso Fonsai in questo senso è stato illuminante. Se la partita non si fosse chiusa (ma lo è davvero?) con Unipol, l'istituto di Piazzetta Cuccia non rischiava tanto di perdere il suo vertice, ma le penne finanziarie. Non è certo una banca nelle condizioni di poter sopportare il dimezzamento del valore di un suo prestito (peraltro incredibilmente lievitato negli anni a quota un miliardo). Le sue spalle non sono così larghe. E dunque ci si chiede cosa accadrà con le sue partecipazioni a caccia di quattrini. Il numero uno di Generali non ha ancora fatto una ricognizione completa dell'azienda, ma tanto più sarà autonomo e tanto più dovrà ammettere che un aumento di capitale per le assicurazioni triestine è necessario. A quel punto cosa farà Mediobanca? Con quali risorse riuscirà a mantenere il suo 13 per cento?
Discorso simile, ma su dimensioni minori, vale per Rcs. I conti rilasciati nei giorni scorsi sono da brivido. Anche per via Solferino si prospetta un aumento di capitale e anche in quel caso Mediobanca dovrà mettere mano al portafoglio. La partecipazione in Telecom che è ritornata a macinare margini positivi per ora è svalutata e congelata: ma non si può definire in sicurezza. L'inciampo del papello rende forse più fragile il vertice di Mediobanca; il problema vero oggi non è di uomini, ma di tenuta di un sistema, che come lo giri, fa acqua. E questo i soci forti del nostro capitalismo lo sanno bene. Uno di loro ci confessa: «Qua rischiamo tutti. E se dovessimo pensare di fare la rivoluzione con le conversazioni private registrate di nascosto come nel caso Ligresti, metteremo in galera mezzo capitalismo mondiale».
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