Economia

Pensioni, un anno di bugie

Prestiti per andare via prima, riforme solo a parole e tagli agli assegni: così il governo prende in giro i pensionati

Pensioni, un anno di bugie

Sono più di 16 milioni e costano allo stato oltre 277 miliardi di euro all'anno. Ecco, in sintesi, la fotografia dei pensionati italiani secondo il rapporto pubblicato ogni anno dall'Istat. Una fetta importante del Paese che il governo Renzi ha più volte messo nel mirino. Di fatto il nodo pensioni è quello che turba di più l'esecutivo. Da quando Renzi è a palazzo Chigi le promesse di riforma e le minacce di tagli agli assegni si sono susseguite regolari nel tempo. In questi anni l'età pensionabile è stata innalzata e chi sperava di andare via prima dovrà restare a lavoro ancora a lungo. Il governo durante questo 2015 che sta per chiudersi ha più volte promesso a chi lavora un'uscita anticipata che però finora è rimasta lettera morta. Ad annunciarlo a maggio scorso era stato proprio il premier Matteo Renzi. Prima in tv, poi a settembre sulle pagine de l'Unità. La “signora di 62 anni che preferisce stare con il nipotino rinunciando a 20-30 euro di pensione potrà finalmente realizzare il suo sogno". Parole vane, perché subito dopo arrivò la frenata del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. La flessibilità dell’età di uscita dal lavoro, aveva avvertito il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, avrebbe dovuto essere a costo zero per le casse dello Stato. E per farlo “non abbiamo ancora trovato la soluzione”, ha ammesso il premier. “Se si interviene sulle pensioni senza saggezza si fa danno, quindi la proporremo nel 2016 quando inumeri saranno chiari”. Di conseguenza l’attesa revisione dellalegge Fornero non è entrata in legge di stabilità. L'unico punto ottenuto da chi è rimasto fregato dalla legge Fornero è solo una proroga per la salvaguardia sugli esodati. Nel corso dei mesi, le voci su riforme e nuovi piani pensionistici sono diventate un vero e proprio ciclone fuori controllo.

In bilico è pure rimasta la cosiddetta Opzione donna, la norma che permette alle lavoratrici di andare in pensione a 57 anni di età e 35 di contributi a patto che accettino un assegno calcolato con il metodo contributivo e quindi più basso. Nei mesi scorsi si erano rincorse le ipotesi sui possibili interventi da inserire nella manovra: dal prestito previdenziale a carico del datore di lavoro all’uscita anticipata con assegno ridotto. Ognuna però presentava punti deboli: il prestito aziendale rischiava di essere accessibile solo per i dipendenti delle grandi imprese, mentre la possibilità di andare in pensione prima di aver raggiunto l’anzianità contributiva minima avrebbe avuto costi elevati per l’Inps a meno di non tagliare le prestazioni di una percentuale corposa. Il problema, insomma, è di coperture. Ma come dicevamo, nonostante i conti siano ballerini, il governo non ha messo la parola fine all'annuncite tipica del premier. E così via con altre confereneze stampa e annunci su nuove riforme. Le principali ipotesi allo studio sono tre: uscita anticipata rispetto a quanto previsto dalla legge Fornero con assegno ridotto di conseguenza, prestito pensionistico finanziato dalle aziende, prestito coperto almeno in parte da risorse pubbliche. Ognuna di queste strade presenta però qualche punto debole. L’ipotesi di consentire l’uscita a 63 anni, contro i 66 attuali, con 35 di contributi e riduzioni dell’assegno del 4% per ogni anno di anticipo, impatta troppo sui conti pubblici. Così come quella proposta dal presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano e dal deputato Pier Paolo Baretta, che prevede la pensione a 62 anni con un taglio del 2% l’anno.

E Padoan ha chiarito che qualsiasi operazione dovrà essere “compatibile con il quadro di finanza pubblica". Insomma tutte le ipotesi naufragano sul muro di via XX settembre. In questo caos che ha lasciato col fiato sospeso milioni di pensionati nel 2015 c'è sullo sfondo il profondo rosso dell’istituto nazionale di previdenza, che ha chiuso il bilancio 2014 con un disavanzo di 12,5 miliardi. E a sanare i buchi probabilmente saranno le future generazioni. Se avete genitori o nonni che sono andati in pensione prima del 1995 è probabile che la loro pensione si aggiri attorno al 70-80% della loro ultima retribuzione. Di simulatori che provano a calcolare le pensioni dei trentenni di oggi ce n’è parecchi, a partire da quello messo a disposizione dall’Inps: per scoprirlo, c’è da inserire la propria professione, il proprio reddito netto annuo attuale e una previsione della crescita media annua della propria retribuzione di qui all’ultima busta paga. Dopo qualche prova empirica, tuttavia, si può notare come sia molto raro che il tasso di sostituzione superi il 65%. Nella maggior parte dei casi oscilla su percentuali attorno al 50-60%, ma non è raro nemmeno che non superi il 40%. Infine c'è un altro aspetto che va sottolineato. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Con il passaggio al contributivo e l’innalzamento dell’età pensionabile si stima che il risparmio per lo Stato sia di circa 80 miliardi di euro in otto anni. Chi pagherà? Ovviamnete sempre i ragazzi che oggi lavorano. Quegli 80 miliardi, insomma, verranno tolti dalle tasche di chi in pensione ci deve ancora andare. Il tutto, ovviamente, con diverse sfumature di grigio. Chi aveva già maturato 18 anni di contributi nel 1995, calcolerà il suo montante pensionistico col metodo retributivo relativamente a tutto quel che ha guadagnato sino al 31 dicembre 2011, mentre per il restante della sua vita professionale dovrà applicare il metodo contributivo; per chi ha iniziato a lavorare prima del 31 dicembre 1995 (ma senza 18 anni di contributi) la pensione sarà calcolata con il metodo retributivo fino a quella data, e poi col contributivo. In estrema sintesi, il metodo contributivo “duro e puro” si applica solo per tutti quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995. I trentenni sanno già che lavorano per un futuro senza pensione.

E come sempre il governo resta a guardare.

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