
Quando si parla di pensioni, un conto è la teoria, un altro la pratica. Lo ricorda un'analisi del Centro studi Cna: in teoria l'età per il ritiro è fissata a 67 anni, ma nella pratica la vita lavorativa media italiana è tra le più basse d'Europa, appena 32,8 anni, contro i 37,2 anni dell'Ue a 27. Solo la Romania fa peggio. In Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca si superano i 42 anni di lavoro, la Germania arriva a 40, la Francia a 37,2.
Un dato che si intreccia con un contesto demografico critico: età media più alta d'Europa (48,7 anni nel 2024), bassa natalità e un indice di dipendenza in crescita. Ci sono, infatti, 38,4 over 64 ogni 100 persone in età lavorativa. "Nel 2050 ogni lavoratore dovrà mantenere un pensionato", avverte l'Inapp. Con una spesa previdenziale già oggi al 15,5% del Pil, la più alta del Vecchio Continente, l'equilibrio tra entrate contributive e uscite pensionistiche si fa sempre più fragile.
Su questo scenario si innesta la proposta del sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon (in foto), di fissare a 64 anni l'età di uscita per tutti. "I 64 anni possono diventare la vera soglia di libertà pensionistica", ha sostenuto, ipotizzando anche l'uso del Tfr come rendita integrativa e il blocco dell'aumento automatico dell'età legato alla speranza di vita previsto dalla riforma Fornero.
Secondo le stime del Centro studi di Unimpresa, però, la misura comporterebbe un impatto immediato e strutturale: tra 120 e 160mila nuovi pensionati in più ogni anno, con una spesa aggiuntiva di 0,3 punti di Pil già dal primo anno e un aggravio cumulato fino a 180 miliardi entro il 2045. Un onere che rischia di ridurre i margini per gli investimenti e le politiche di crescita.
Oggi il ritiro a 64 anni è possibile con 20 anni di contributi e un assegno pari ad almeno tre volte l'assegno sociale (1.616 euro nel 2025), soglia ridotta per le donne con figli. Ma dal 2030 il requisito salirà a 3,2 volte l'assegno sociale. Le esperienze recenti di flessibilità, come Quota 103 (62 anni e 41 di contributi con calcolo interamente contributivo), non hanno avuto grande successo: nel 2024 le adesioni sono state appena 1.153.
Il nodo di fondo resta il mercato del lavoro: in Italia l'occupazione giovanile è al 19%, contro il 51% della Germania, e l'ingresso stabile avviene spesso oltre i 30 anni. Questo riduce la durata della vita contributiva e aumenta la pressione sui conti previdenziali. Le micro e piccole imprese, dove oltre un dipendente su cinque ha meno di 30 anni, possono essere una leva per invertire la tendenza, ma servono politiche che facilitino l'assunzione e la stabilizzazione dei giovani.
La sfida, dunque, non è solo fissare un'età di uscita più bassa, ma garantire che un sistema previdenziale già sotto pressione per l'invecchiamento e la bassa natalità resti sostenibile.
Ed è molto difficile raggiungere questi obiettivi in un Paese dove l'accesso al lavoro è lento, soprattutto per i giovani, e dove la vita lavorativa si interrompe spesso ben prima dell'età di vecchiaia prevista dalla legge.