Il lungo lavoro ai fianchi di Donald Trump è servito: sui tassi, Jerome Powell getta la spugna. «Restano appena al di sotto del livello che sarebbe neutrale per l'economia», ha detto ieri il presidente della Federal Reserve in un discorso a New York. Il falco che non più tardi di un paio di mesi fa gelava i mercati sostenendo che il livello del costo del denaro era «ancora ben lontano» dal punto ottimale, si è ora trasformato in una colomba. Quel piumaggio dovish che tanto piace agli investitori, solleciti nel ricalibrare le attese sulle strette 2019 da tre a una soltanto e nel far volare gli indici a Wall Street, dove il Dow Jones ha guadagnato oltre il 2%, mentre sono scesi dollaro e rendimenti sui Treasury.
Investitori e analisti hanno letto le parole del custode del tempio monetario Usa come il primo segnale che il ritmo di aumento del costo del denaro è destinato a rallentare nel corso dell'anno prossimo. Anche se Powell - rifugiandosi nel lessico tipico dei banchieri centrali - ha precisato che non vi è nulla di prestabilito nel percorso della politica monetaria. «Seguiremo i dati economici», ha detto. Per ora, la crescita resta solida, al punto da giustificare un altro giro di vite, peraltro scontato, ai tassi in dicembre. Ma il +3,5% messo a segno dal Pil nel terzo trimestre, l'ultimo quarter a beneficiare degli sgravi fiscali voluti dalla Casa Bianca, sarà difficilmente ripetibile tra ottobre e dicembre, quando l'espansione economica dovrebbe rivelarsi più debole stante anche quelle «minacce potenzialmente elevate», secondo il primo rapporto sui rischi alla stabilità finanziaria della Fed, derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalla guerra commerciale. Powell ha poi aggiunto un'altra variabile: il braccio di ferro tra l'Italia e l'Unione europea sulla manovra rappresenta una possibile «fonte di rischio», tra quelle «che potrebbero innescare tensioni in qualunque momento».
Nel frattempo, Trump può cantare vittoria. Con una moral suasion ruvida, inusuale ed esercitata pubblicamente a colpi di tweet infarciti di punti esclamativi, il tycoon sembra aver piegato Powell. Al quale, ancora ieri, ha riservato un trattamento al vetriolo dalle colonne del Washington Post: «Finora non sono contento neanche un po' della mia scelta di Jay. Nemmeno un po'. Non sto dando la colpa a nessuno, ma sto solo dicendo che penso che la Fed sia completamente fuori strada». A parere di The Donald, Eccles Building ha la colpa dei recenti ribassi degli indici azionari e perfino della decisione di General Motors di chiudere quattro stabilimenti negli Stati Uniti (più uno in Canada), con il taglio di oltre 14mila posti di lavoro.
L'inquilino della Casa Bianca ha comunque detto di non temere una recessione, malgrado le pressioni esercitate sulla Fed fossero verosimilmente tese a disinnescare i rischi di una crisi indotta da un irrigidimento troppo pronunciato della politica monetaria. Alcuni osservatori fanno comunque notare che proprio una brusca, quanto breve, recessione farebbe definitivamente capitolare la banca centrale.
E questa inversione di un ciclo di espansione lunghissimo dovrebbe arrivare ben prima del 2020, l'anno in cui Trump si giocherà il secondo mandato, per dar modo alla Fed di influenzare l'economia e i mercati attraverso il taglio dei tassi o, addirittura, col lancio di un nuovo quantitative easing.
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