Economia

Il ricalcolo sulle pensioni? La "bomba" sugli assegni

Gli assegni potrebbero subire un calo a causa della crisi economica che ha colpito il Paese. Ecco come le pensioni cambieranno rispetto alle rivalutazioni

Il ricalcolo sulle pensioni? La "bomba" sugli assegni

La questione delle rivalutazioni delle pensioni è un rebus. Un rompicapo. In molti casi, una beffa. È una faccenda annosa che può essere compresa solo se si parte dall’inizio: dal blocco delle rivalutazioni deciso dal governo Monti durante la crisi finanziaria del 2011. Viene istituito dal decreto Salva Italia. In questo contesto storico il premier, Mario Monti, e il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, dividono in varie fasce gli assegni dei pensionati. Da una certa percentuale, nemmeno troppo alta, in su viene stabilito il blocco. Il tutto per salvare i conti pubblici.

Inizialmente sono delle misure occasionali, valide per un periodo di tempo circoscritto. Promessa che viene puntualmente tradita. L’obiettivo è tagliare, ma il problema nasce spontaneo. Finché si tratta di una misura eccezionale, può anche avere un senso. Un anno, due anni al massimo di durata. Ma tutto poi è degenerato. E le cose sembrano essere sfuggite di mano. Non a caso la Corte Costituzionale si è espressa più volte in questo senso. La prima volta nel 2015. Una sentenza importante che decreta l’incostituzionalità del provvedimento. Poco dopo, arriva il famoso bonus Renzi che cerca di mettere una toppa alla brutta figura del governo. Un contentino. Qualche centinaia di euro attribuiti a poche categorie di pensionati.

"Dal punto di vista giuridico siamo di fronte a una violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione", spiega a IlGiornale.it l’avvocato Celeste Collovati (rivalutazionepensione@gmail.com) in prima linea sui ricorsi. "Arrivando ai giorni nostri, il problema è che ancora sussiste il blocco delle rivalutazioni, nuovamente istituito con la legge di Bilancio del 2019 che introduce l’ennesima mannaia sulle pensioni".

Ciò ha provocato gravi danni ai nostri anziani. Persone che si sono viste notevolmente ridurre il loro potere di acquisto. Nella manovra 2020 invece arriva la beffa: si introduce una nuova rivalutazione, ma limitata a poche fasce previdenziali e che ha il sapore della presa in giro. Poche decine di euro in più negli assegni per zittire i più critici.

"Non a caso, ad oggi, è ancora possibile fare ricorso", aggiunge Collovati. "Perché siamo di fronte a una violazione della Carta che interessa le pensioni più alte (ma che poi alte non sono), e in particolare quelle che vanno dalle sei volte in su il minimo Inps. Gli assegni pari ai 3mila euro lordi circa sono stati colpiti in modo evidente dal blocco rivalutativo. Una vera discriminazione all’interno del mondo dei pensionati". Il blocco quindi, anche se sotto traccia, c’è. È incostituzionale e reiterato nel tempo. Ha dunque perso quel carattere di eccezionalità, legato alla crisi economica, che aveva designato la sua introduzione.

Tutto nel mondo giuridico è in attesa di una nuova sentenza della Corte Costituzionale che avrà luogo probabilmente l’ottobre prossimo. Intanto, i poveri pensionati e chi li rappresenta sono pronti a tutelarsi di fronte ai giudici ordinari. E in molti casi sono arrivate sentenze che hanno giudicato fondate le loro richieste. Ora si attende la decisione definitiva.

Cosa accade con la Manovra 2020

Con la Manovra 2020 solo alcune categorie di pensioni hanno avuto una - seppur minima - rivalutazione. Qualcosa che suona come una misera mancia ai cittadini. Non convincono le modalità, né l’entità delle somme di denaro elargite. Vediamo perché.

L’aumento dell’importo delle pensioni è limitato. Si tratta dello 0,4%. Una "mini rivalutazione". Ed è legata ai dati Istat su inflazione e costo della vita. Per effetto dell’ultima legge di Bilancio gli assegni pensionistici aumentano, seppur di poco. E l’aumento viene scaglionato in sei aliquote distinte: al 100% per i redditi fino a 4 volte il trattamento minimo pari a 513 euro. Che vale quindi per coloro che arrivano fino a 2.052 euro mensili. Al 77% per i trattamenti fino a 5 volte il trattamento minimo. Al 52% fino a 6 volte. Al 47% fino a 8 volte. Al 45% fino a 9 volte. Al 40% per i trattamenti superiori a 9 volte. Poi, a partire da 2022, gli scaglioni diventeranno 3: rivalutazione al 100% fino a 2.029 euro, del 90% tra i 2.029 e 2.538, del 75% sopra quella cifra.

Tradotto, significa che 2 milioni e 800 mila pensionati incasseranno circa 3 euro in più all’anno, ossia 25 centesimi al mese. Una vera miseria. Un’elemosina. Una mini rivalutazione che non è quanto necessario né quanto ci si aspettava. Dal 2011 a oggi, i pensionati hanno subito uno smacco non da poco. Secondo un calcolo della Uil, nell’arco di 12 mesi, un pensionato può dover fare i conti con uno "scippo" che, in certi casi, può arrivare anche a mille euro ogni anno. E la colpa è tutta delle rivalutazioni azzoppate che hanno provocato un’evidente perdita del potere d’acquisto degli stessi pensionati. Cosa intende fare il governo giallorosso per uscire dall’impasse? L’esecutivo ha promesso più denaro, ma è ancora tutto da vedere.

I prossimi passi

Il fronte si riaprirà in autunno. E occorrerà vedere quale sarà il piano del governo. Ciò che si sa, è che gli assegni delle pensioni saranno legati all’andamento del Pil con una rivisitazione del montante contributivo. Ci troveremo di fronte a una riduzione degli importi (ancora una volta). La recessione economica, scatenata dalla crisi da coronavirus, potrà avere infatti un impatto negativo sugli assegni previdenziali, perché il meccanismo vigente prevede che i contributi vengano ricalcolati sulla base dell’andamento economico.

Le stime parlano di un ribasso (tra qualche tempo) degli assegni interamente contributivi compreso tra il 2,5 e il 3%. L’impatto è al momento piuttosto modesto e potrebbe corrispondere a una trentina di euro in meno al mese per una pensione media di 1.126 euro. Non è però detto che questo accada: il governo può infatti decidere di intervenire per bloccare l’applicazione del tasso di variazione del montante.

Per spiegare i motivi di questa ennesima "mazzata" bisogna tornare indietro al 1995: riforma Dini. Quel provvedimento ha come obiettivo la conservazione dell’equilibrio finanziario del sistema. Si decide una cosa molto semplice. Coloro che nel 1995 hanno almeno 18 anni di contribuzione, ricadono nel sistema retributivo. Vengono quindi inseriti nel calcolo contributivo solo a partire dalla legge Fornero del 2012. Chi, invece, al passaggio tra il 1995 e il 1996, ha meno di 18 anni di contribuzione, viene collocato nel sistema misto basato su un calcolo contributivo da quell’anno in poi. Quest’ultimo prevede, appunto, un ricalcolo del montante contributivo in base al coefficiente fornito ogni anno dall’Inps sull’andamento del Pil nei cinque anni precedenti. Ecco spiegato lo scacco matto dei giallorossi ai pensionati.

Lasciati sempre più soli e senza un soldo in tasca.

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