La ricetta francese per Gucci: lasciare le chiavi agli italiani

Fino al 2015 il marchio zoppicava: ora vola. Pinault ha dato carta bianca a chi sa come si gestisce la moda

La ricetta francese per Gucci: lasciare le chiavi agli italiani

A proposito di Alitalia e di quanto la «colonizzazione degli stranieri» rappresenti spesso un'esagerazione. Gucci è uno storico marchio italiano, fiorentino dal 1921. Acquisito alcuni lustri fa dalla multinazionale francese di Françoise Pinault (oggi si chiama Kering ed è quotata a Parigi). All'inizio di questa settimana il gruppo francese ha pubblicato i conti dei primi tre mesi dell'anno. Sono andati bene e il titolo ha fatto il botto in Borsa con un balzo del 10 per cento.

A lasciare a bocca aperta gli analisti sono stati però i risultati della controllata fiorentina. Gucci in un trimestre ha fatto registrare un balzo nel fatturato del 50 per cento: avete letto bene, il 50 per cento. È passata da circa 850 milioni a 1,5 miliardi di vendite. In sei mesi la sola Gucci fatturerà come l'intera Alitalia. E con margini da capogiro. Nel lusso gli utili operativi si aggirano intorno al 15 per cento del fatturato: il gruppo di Pinault nel 2016, prima del botto di Gucci, fatturava 12 miliardi di euro e registrava poco meno di 2 miliardi di utili operativi.

Ma cosa c'entra tutto ciò con l'italianità e Alitalia? Molto. Gucci non è stata sempre un gioiellino. Ha sempre mantenuto gran parte della produzione in Italia, ma nel 2014 e 2015 zoppicava. Pinault prende dal mazzo dei suoi manager Marco Bizzarri e gli chiede di far cambiare passo al marchio. Mica facile. Bizzarri è un manager, ma la doppia G come tutta la moda, gira intorno al direttore creativo. Bizzarri racconta in una interessante intervista realizzata durante un convegno Pambianco (http://tv.pambianconews.com/innovazione-e-velocita-intervista-marco-bizzarri/) cosa ha fatto. Ha cercato disperatamente tra i nomi che contano degli stilisti mondiali. Aveva appena fatto fuori la reginetta di Gucci e doveva trovare un sostituto. Nessuno lo convince. Ad un certo punto, a ridosso delle collezioni, chiama al telefono il numero due dello stile, che aveva in casa. Alessandro Michele, ha i capelli neri lunghi, è colorato, ha tatuato Gucci nel suo dna, vi ha lavorato per 12 anni, è intelligente e veloce, è romano, e da lì non si sposta, e aveva sempre disegnato borse. La chiamata di Bizzarri è per tranquillizzarlo: «Uee, ragazzi, non vi licenzio, tenete duro finchè non trovo uno stilista». Ma quella telefonata va particolarmente bene e il giorno dopo Bizzarri bussa alla porta di casa di Alessandro. Gli apre con indosso quelle pantofole pelose, che oggi non c'è una vittima Gucci che non indossi, e lo introduce nel suo quartierino dove sorseggiano, si fa per dire, un caffè per quattro ore. La casa, dirà Bizzarri, è Gucci; Alessandro mi è piaciuto subito. Resta da trovare lo stilista, e si arriva praticamente a pochi giorni dalla show. È lì che Bizzarri e Pinault fanno il colpo di testa. Alessandro Michele firma la sua prima collezione, che sarà come quelle a seguire un grande successo.

Non si tratta di una piccola storia manageriale. Ma di una grande lezione italiana. Il capitale di Gucci è francese, saldamente francese. Il suo top management è globale, con una spruzzata forte di italianità. È vero che gli amministratori delegati di un marchio della moda non disegnano le collezioni, ma trattano con coloro che lo fanno: mestieraccio. E oltre a ciò costruiscono la ciambella intorno al buco. Non è un caso se Pinault, ma anche il suo concorrente Arnault, utilizzino tanti italiani. Abbiamo una grande scuola e tradizione nel guidare questo genere di aziende. E fiuto. E coraggio. Quello che ha avuto Bizzarri di scovare un talento in casa, di puntare su di lui e di lasciarlo fare. Gran parte della crescita di Gucci (700 milioni in più in un solo trimestre) hanno la firma del romano. Che adora la sua città e lì vi sta spostando il baricentro dei suoi uffici.

Domanda dalle mille pistole: i dipendenti di Gucci e del francese Pinault (11 mila circa) sono interessati alla nazionalità del loro azionista di

maggioranza, o al funzionamento di un'azienda meritocratica che macina utili e fatturato come una caterpillar? La domanda può sembrare banale, ma in Italia non lo è. Soprattutto a leggere tanti commenti sul caso Alitalia.

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