Stefano Ricucci con pantaloni bianchi, camicia bianca, giacca blu e occhiali da sole lancia due galline davanti ad altrettante Mercedes nere parcheggiate nel cortile di villa Feltrinelli all'Argentario. Il personaggio sta tutto in quella fotografia scattata nel 2007 e pubblicata da Chi. Non in quella scattata ieri quando è stato arrestato dalla Guardia di Finanza insieme a Mirko Coppola (un imprenditore della zona di Frosinone che è solo omonimo di Danilo Coppola) con l'accusa di false fatturazioni per circa un milione di euro emesse per gonfiare in modo abnorme il credito Iva alimentando un «sistema» dove si incrociano faccendieri e giudici amministrativi, politici e funzionari pubblici. Ci sono infatti altri dieci indagati a piede libero, tra cui un magistrato del Consiglio di Stato, Nicola Russo. Per la Procura di Roma è «altamente probabile» che sia «stato indebitamente retribuito da Ricucci» in cambio della rivelazione della decisione della commissione tributaria regionale in favore della società del gruppo Magiste (battezzato mettendo insieme le iniziali del padre Matteo, della madre Gina e dello stesso Stefano).
Quando si dice la nemesi: Ricucci finisce in manette proprio nei giorni in cui Urbano Cairo ha conquistato la Rcs strappandola ai «salotti». E sempre d'estate. Come quella del 2005 quando a tentare il colpaccio fu lui, insieme a quelli che poi sarebbero passati alla storia come i «furbetti». Copyright sempre suo, di questo finanziere-immobiliarista (con in tasca un diploma da odontotecnico) di Zagarolo che in quegli anni non riuscì solo a sposare Anna Falchi ma anche a cambiare il vocabolario della lingua italiana. In quell'occasione, leggendo sui giornali i resoconti delle intercettazioni telefoniche che lo riguardavano, gli italiani appresero di certe sue coloirite espressioni romanesche, entrate poi nel linguaggio comune: «Ma che stamo a fa', i furbetti der quartierino?»; e ancora: «Ma che volete fa', i froci cor culo dell'artri?» (pronunciata in una riunione di giuristi e banchieri.
Fallì invece nel tentativo di fare il padrone in via Solferino come corollario delle scalate bancarie (a Bnl e Antonveneta) finite anch'esse in un clamoroso flop di cui ancora oggi si contano i danni a Siena e dintorni. Nel maggio del 2005, ricorda il banchiere Cesare Geronzi nel suo libro-intervista Confiteor, il patto di sindacato di Rcs prese due decisioni: incaricò l'avvocato Guido Rossi di trattare con Ricucci la cessione delle azioni della Rizzoli che questi aveva rastrellato facendosi finanziare dalla Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani; riconfermò l'impegno di tutti i soci pattisti a non vendere le azioni Rcs sindacate, che rappresentavano più del 60% del capitale. Rossi non chiuse la trattativa perché Ricucci poneva condizioni inaccettabili ma la vera ragione della debolezza di Ricucci nella trattativa, secondo Geronzi, era la riconfermata unità del patto. Per quanto non mancassero alcuni azionisti Rcs interessati a vendere, quella delibera del patto rendeva materialmente impossibile il lancio di un'Opa su Rcs da parte dell'ingenuo scalatore. Che infatti si inchiodò al 21% della Rcs e non si mosse più. Finché la procura non lo obbligò a scendere dalla giostra.
Il 18 aprile 2006 lo arrestarono: passò quasi tre mesi a Regina Coeli. Dieci anni dopo, il copione si ripete.
Ma nella calda estate di Rcs, Ricucci stavolta recita solo il ruolo di comparsa. Alle 6 di mattina, quando i finanzieri hanno suonato alla porta del suo appartamento romano è rimasto sbigottito. «Ma come? Mi portate in galera per un paio di fatture?», ha esclamato prima di chiamare il suo avvocato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.