Tutti mettono il lavoro al centro delle promesse elettorali, perché è un punto dolente della società, che coinvolge i giovani e anche una parte di adulti maturi che l'hanno perso o lo stanno perdendo. Entrambi preoccupati perché si sentono poco competitivi. Cosa vado a fare, a 50 anni? Come faccio a costruirmi una famiglia, se dopo un lavoretto ne devo cercare un altro? La risposta a questo problema è una sola: competitività, alias «impiegabilità». Il lavoratore oggi opera in un sistema competitivo, dove le competenze richieste cambiano in fretta. La formazione ricevuta a scuola o all'università, per quanto debole possa essere (in un sistema progettato per i docenti e non per gli studenti), è solo una parte del bagaglio. Il resto va aggiunto attraverso l'impegno sul lavoro e l'aggiornamento. Fuori dal lavoro (specialmente quando non si ha un lavoro) l'individuo deve costantemente aggiornare le proprie conoscenze e competenze. Troppi non sanno usare il computer per lavoro, eppure lo adoperano a casa per le foto o per navigare. Anche sul posto di lavoro, c'è differenza tra eseguire il dovuto senza sforzarsi né assumersi responsabilità, restando ai margini, oppure farsi coinvolgere nelle attività importanti, cercando ogni occasione per stare al centro dell'azione. Fare il proprio lavoro e basta è più comodo e meno faticoso, e col bel tempo conviene. Ma quando soffia il vento di una crisi sarà il primo a essere sacrificato e l'ultimo a trovare un'altra occupazione. Certo, anche chi si impegna può perdere il lavoro, ma avrà sempre la sua impiegabilità. Impiego contro impiegabilità. Quando l'impiego era a vita, uno poteva mettersi tranquillo. Oggi che il posto fisso non esiste più, diventa necessario possedere e preservare una impiegabilità, a vita. Non ci sono alternative, a meno di non riuscire a sistemarsi nell'unica zona franca, la P.A. Lì produrre o non produrre, avere o no competenze, farsi coinvolgere o meno, sono distinguo irrilevanti: puoi fare come ti pare, tanto il tuo posto nessuno te lo toglierà. Tornando alla gente comune, che lavora per produrre (e per pagare gli stipendi della P.A.), possiamo distinguere tre profili. I più preparati, che hanno un posto fisso e lo lasciano per un altro migliore. Poi quelli che si tengono al passo e si impegnano, conservano il lavoro e se gli capita di perderlo, non per loro colpa, riescono a trovarne un altro, perché hanno la forza della loro impiegabilità. Infine, e purtroppo, i più deboli, scarsamente preparati e anche poco disponibili a qualificarsi e a rimboccarsi le maniche. Spesso perché si ritengono già qualificati da un titolo di scuola superiore o da una laurea, che in realtà sono giusto una base su cui incastrare ulteriori competenze, sia pratiche sia comportamentali. Già, tanti non sanno proprio muoversi né relazionarsi nell'ambiente lavorativo. Agiscono come se fossero al bar o sui social. Concetti come risultato e responsabilità (per non parlare di valore aggiunto) gli sono distanti se non sconosciuti. Aspirano a un lavoro fisso, a tempo indeterminato, che non trovano. Sono però le prede di politici ed esperti, che invocano per loro un'occupazione di posti fissi e criticano quelli a tempo. L'impressione è che loro, più che un lavoro, rivogliano indietro gli anni '70, con le fabbriche e gli operai descritti da Chaplin in Tempi Moderni.
Ma quel mondo non c'è più, quei lavoratori-macchine non servono più. Di conseguenza, perpetuare la cultura del posto fisso non è solo fuori dalla storia, è sbagliato: perché fa il male, non il bene, dei lavoratori.
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