Economia

Lo slalom 2022 di Fed e Bce tra inflazione, elezioni e Borse

In Usa è previsto il rialzo dei tassi, in Europa no. Molto dipenderà dai prezzi. E dal voto: mid-term e Francia

Lo slalom 2022 di Fed e Bce tra inflazione, elezioni e Borse

I poteri divinatori di Elon Musk sono comparabili a quelli del Mago Otelma, ma certo l'ondivago guru di Tesla non è il primo a prevedere come possibile una recessione entro il 2022. L'evento sarebbe certo nefasto e costringerebbe le banche centrali a cambiare in tutta fretta le proprie strategie che, seppur con diverse gradazioni, sono orientate a ridefinire in termini meno laschi le politiche monetarie. Ciò vale soprattutto per la Federal Reserve, meno per la Bce.

La Fed chiuderà infatti entro marzo il programma di aiuti da 120 miliardi di dollari al mese, per poi concentrarsi sui tre rialzi dei tassi già messi in cantiere. Non pochi economisti sono convinti che Jerome Powell, essendosi mosso tardivamente dopo essere rimasto impantanato per mesi sul concetto di inflazione transitoria, finirà per pagarne le conseguenze. A voltare le spalle al riconfermato presidente di Eccles Building potrebbe essere per prima Wall Street. Il mercato azionario a stelle e strisce è quello che più di tutti ha beneficiato dell'azzeramento del costo del denaro e della liquidità profusa a piene mani dalla banca centrale sotto forma di stimoli. In un tripudio di buyback (controvalore, 742 miliardi), di Ipo (un migliaio), e grazie al lievitare degli utili societari (+45%) e al flusso di acquisti garantito dagli investitori retail, il valore dei titoli si è gonfiato consentendo allo Standard&Poor's 500 di crescere di quasi il 30%.

Né la variante Omicron, né la Fed in modalità falco e neppure il costante surriscaldamento dell'inflazione hanno fermato la giostra. Ma le cose potrebbero in fretta cambiare in peggio se lo slancio della ripresa, peraltro già indebolito, si trasformasse in qualcosa di somigliante alla stagflazione. Anche perché Powell non ha il potere di controllare le forze esogene che soffiano sui prezzi, a cominciare dai costi dell'energia e dai colli di bottiglia nella catena degli approvvigionamenti. La stessa inflazione ufficiale, volata al 6,8% in novembre e al più alto livello da quasi 40 anni, sottostima un fenomeno ben più marcato. Per rendersene conto basta dare un'occhiata ai prezzi delle case, rincarati del 20% quest'anno e pronti a salire di un altro 11% nel 2022. Un'escalation di cui però l'indice dei prezzi al consumo non tiene conto, visto che il paniere si limita a monitorare soltanto l'andamento degli affitti, e di cui sono corresponsabili la Fed e gli 11mila miliardi di aiuti messi in campo da Joe Biden, per il quale è stato coniato non a caso il termine Bidenflation.

Una correzione violenta degli indici rischierebbe di trascinare in recessione l'America, a causa delle forti implicazioni che la finanza ha su un'economia reale sempre più influenzata dai mercati azionari e immobiliari e dalle criptovalute. A qual punto, con un bilancio ancora gonfio di asset (dai 4mila miliardi del 2020 agli 8.700 attuali) la Fed sarebbe costretta a fare velocemente marcia indietro, probabilmente prima delle elezioni di medio termine previste in novembre in modo da evitare una disfatta alla Casa Bianca.

La Bce sembra invece giocare un'altra partita, ma non è detto che sia meno rischiosa. Christine Lagarde sta temporeggiando: non ha abbandonato il concetto di inflazione transitoria, ha programmato un tapering morbido che porterà al termine del piano d'emergenza anti-pandemia da 1.850 miliardi di euro (Pepp) in marzo, ma ha anche varato un Qe rafforzato che raddoppia, da 20 a 40 miliardi, gli acquisti a partire dal secondo trimestre. Di toccare i tassi non si parlerà prima del 2023. Tanta cautela pare attribuibile, più che alla volontà di non mettere sabbia negli ingranaggi della ripresa, all'intento di evitare sussulti sui mercati finanziari dato che qualche tensione sugli spread già si avverte. Ma la direzione in cui si muoverà nei prossimi mesi l'Eurotower dipenderà molto dalla politica. Un governo tedesco meno conciliante potrebbe portare l'appena eletto presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, su una traiettoria di intransigenza nel board della banca centrale. Linea dura che potrebbe tuttavia essere neutralizzata se Mario Draghi ed Emmanuel Macron restassero in plancia di comando, riuscendo a rendere concreta l'idea di trasferire dal bilancio della Bce a un'agenzia Ue di gestione del debito una parte dell'indebitamento accumulato durante la pandemia.

Una mossa tesa a sdoganare l'emissione permanente di Eurobond e a rendere la Bce sempre più simile alla Fed.

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