Secondo l'ultima indagine del Centro Studi Cna (Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa) le piccole imprese intervistate, per stare al passo di tutta la lista sfinente degli adempimenti «proposti» dalla pubblica amministrazione, sprecano dai tre giorni lavorativi ogni mese (41,3%) fino ad oltre dieci (il 6,8%). Non mi sorprende, ma leggerle queste percentuali fa una certa impressione. Percentuali che non dovrebbero avere cittadinanza in un Paese serio, che vuole essere dalla parte dell'imprenditoria, specie di quella più piccola, per sua natura micro comunità comprendente il titolare e quanti vi lavorano. Nove imprese su 10 non hanno dubbi: la cattiva burocrazia è un grandissimo ostacolo alla loro competitività. Una perdita di tempo che pesa oro. Si tratta di un dialogo surreale; tra l'espressione migliore e più importante della nostra economia reale e personale pubblico impreparato, indisponente, «opaco». Siamo maestri nel vizio di complicare le cose quando invece, per consentire di accelerare, programmare e sviluppare sarebbe economicamente redditizio per il sistema Paese favorire semplificando. E se qualche miglioramento vi è stato di recente, lo si deve all'innovazione tecnologica e non certo alla disponibilità solerte della macchina pubblica. E, per non farci mancare nulla, è di 22 miliardi l'anno il conto della burocrazia da me ribattezzata diversi anni addietro «peggiocrazia» caricato sulle spalle delle pmi.
Come può una piccola e volenterosa realtà imprenditoriale tornare a riveder le stelle se il nemico «pubblico» numero 1 ce l'ha appena fuori le porte dell'azienda? Forse un personale più preparato potrebbe aiutare. Ma il problema di fondo è un altro, storico dalle nostre parti: l'imperversare della mentalità statalista. Per definizione avversa alla libertà di impresa.www.pompeolocatelli.it
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