Stanley Fisher, braccio destro della presidente della Fed, Janet Yellen, è un banchiere di lungo corso. Insomma, in carriera ne ha viste tante: crisi, resurrezioni, depressioni e boom. Tanta esperienza porterebbe a dire che lo stesso Fisher è il primo a non credere alle sue stesse parole. Entro la riunione dell'istituto centrale Usa dei prossimi 26 e 27 luglio «il quadro potrebbe essere più chiaro», ha detto qualche giorno fa riferendosi agli effetti della Brexit. In realtà, anche i muri di Eccles Building sanno benissimo che non basterà certo una manciata di giorni per sciogliere tutti i nodi creati dallo strappo britannico. Occorreranno - se va bene - mesi per valutarne con cognizione di causa l'impatto sull'economia statunitense.
L'esito del referendum britannico è d'altra parte un formidabile alibi per giustificare l'inazione sul fronte dei tassi. Fischer, così come l'intero board della Fed, non ha dubbi sul fatto che dalla riunione di fine mese uscirà l'ennesima fumata nera. Per cambiare le carte in tavola non basteranno i dati di giugno sul mercato del lavoro - 287mila nuovi posti, comunque molto migliori delle attese anche se con disoccupazione che sale dal 4,7 al 4,9% - dopo lo striminzito risultato di maggio (appena 38mila new jobs) con cui la Yellen aveva giustificato la decisione di rimandare ancora la stretta. Dal mini-giro di vite dello scorso dicembre, il primo dopo ben otto anni, il sentiero che porta verso la normalizzazione della politica monetaria si è via via fatto sempre più stretto, fino a chiudersi completamente.
Se l'America farà probabilmente fatica a portare a casa a fine anno una crescita di almeno un paio di punti percentuali, preoccupa la frenata di una Cina costretta, per sostenere la propria economia, a svalutare lo yuan senza curarsi troppo dell'ormai imminente ingresso nel paniere di valute del Fondo Monetario. Pechino, del resto, è in buona compagnia, visto l'indebolimento di euro e sterlina rispetto al dollaro. E non è da escludere che, presto, anche il Giappone decida di salire sulla stessa giostra.
Insomma: con la guerra valutaria combattuta sempre su più larga scala, sarebbe un suicidio per gli Stati Uniti aumentare i tassi e rafforzare ulteriormente il biglietto verde.
Poi, a suggerire estrema prudenza, ci sono le turbolenze sui mercati. Il divorzio dall'Ue consumato dall'Inghilterra non ha fatto altro che esacerbare una volatilità già vista durante l'anno, connessa al crollo dei prezzi delle materie prime, al rallentamento dell'economia globale e, forse soprattutto, alla percezione da parte degli stessi mercati che le banche centrali hanno perso il loro potere taumaturgico. Proprio nel momento in cui i fronti caldi si stanno allargando. I sei fondi immobiliari nel Regno Unito congelati a causa di insostenibili richieste di riscatto sono una spia rossa che proprio la Fed, memore di quanto accaduto nel 2008 con la crisi dei mutui subprime, non può far finta di non vedere.
Il rischio, infatti, è quello di un effetto domino creato dalla tracimazione della sfiducia ben oltre i confini britannici. Nè la Yellen può trascurare gli scricchiolii che arrivano non soltanto dagli istituti italiani pieni di sofferenze e titoli di Stato, ma dall'intero sistema bancario europeo. Il botto di qualche banca sistemica avrebbe conseguenze anche per l'America.
Con questo quadro e se si considera che gli Stati Uniti saranno in ottobre nel pieno della battaglia per la Casa Bianca, è verosimile che i tassi non verranno toccati prima del 2017. Sempre che un'improvvisa recessione, o una tempesta finanziaria perfetta, non costringa la Federal Reserve a mandarli sottozero.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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