Dovrebbe essere chiusa entro l'estate l'inchiesta sui diamanti venduti in banca come investimento, che nel febbraio scorso ha portato al sequestro preventivo di oltre 700 milioni a due broker di Intermarket Diamond Business (Idb) e della Diamond Private Investment (Dpi), e a cinque banche: Banco Bpm, la controllata Banca Aletti, Unicredit, Mps e Intesa Sanpaolo.
E dalle 83 pagine del decreto di sequestro spunta anche l'ipotesi che Idb, per garantirsi il contratto in esclusiva, aderì all'aumento di capitale di Unicredit nel 2012 e venne spinta a fare altrettanto per due aumenti di capitale dell'allora Banco Popolare, nel 2014 e nel 2016.
Al momento del sequestro, risultavano indagate 68 persone, fra dirigenti e funzionari di banca e titolari delle due aziende di diamanti, oltre alle sette società. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono truffa, autoriciclaggio, riciclaggio, corruzione fra privati e, solo per Banco Bpm e un suo dirigente, ostacolo all'autorità di Vigilanza. Sarebbe intanto salito a oltre 450 il numero dei clienti che hanno denunciato alla procura di Milano di essere stati truffati nella vicenda.
L'accusa ipotizza l'esistenza di commissioni di intermediazione sulla vendita delle pietre che andavano da un minimo del 12% fino a un massimo del 24,5% per le banche coinvolte, quando qualunque altro prodotto finanziario fruttava loro fra l'1 e il 2 per cento. Nel mirino, anche i regali in viaggi, gioielli, reperti archeologici da parte delle società che gestivano in duopolio il business dei brillanti «da investimento» ai dirigenti di banca perché promuovessero il loro prodotto. Ai clienti veniva fatto credere che il prezzo pagato fosse il valore effettivo della pietra, mentre in realtà comprendeva il 20% di Iva, le commissioni alle banche, i costi della società venditrice (assicurazione, deposito). E quindi dalle perizie il valore effettivo dei diamanti è risultato essere in realtà fra il 30% e il 50% del prezzo pagato.
Per di più il cliente avrebbe potuto chiedere di vendere le sue pietre solo pagando una ulteriore commissione dal sette al 16% ai broker in funzione della durata dell'investimento. Inoltre, scrivono ancora i magistrati, in sede di trattativa veniva utilizzato il termine di «quotazioni» per le pietre «convincendo i clienti dell'esistenza di un mercato ufficiale regolamentato dei diamanti», quando in realtà si trattava di un «listino prezzi» elaborato dalle due società e pubblicato come pubblicità, ma in forma di tabella, in una pagina del Sole 24 Ore.
Le banche coinvolte dalla vicenda hanno, comunque, già iniziato a restituire il denaro, ricomprando le pietre al prezzo originario e attivando servizi di customer care.
Nel frattempo, una sentenza record del tribunale di Verona ha dato ragione a un cliente del Banco Bpm. La storia, riporta il sito di Milano Finanza, è quella di una signora, oggi deceduta, che aveva investito in diamanti attraverso gli sportelli bancari una buona parte dei suoi risparmi, 46.222,4 euro. Nel 2018 l'erede ha fatto causa, attraverso i legali dell'Adusbef, alla banca milanese che ha scelto la strada della contrattazione singola nel caso dei diamanti, decidendo di volta in volta se trovare un accordo privato.
Il giudice ha però stabilito un metodo per il ristoro al cliente che forse farà da apripista in Italia. Ha tenuto in considerazione l'ultimo listino Rapaport, un bollettino che riporta il valore medio degli scambi delle pietre fra operatori (non è il prezzo finale) ed è soggetto a oscillazioni del 30%.
Il giudice ha quindi fatto tradurre il listino dal dollaro all'euro e ha applicato alla cifra in questione il 30% in più. Il caso diamanti ha portato tre dirigenti del Banco Bpm, tutti e tre di estrazione veronese e legati all'ex Banco Popolare, ad andarsene. Tra questi, il direttore generale del gruppo, Maurizio Faroni.
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