Litigano, minacciano, si scontrano. Ma quella tra Stati Uniti e Cina non è ancora una guerra commerciale in piena regola. Si direbbe, semmai, una partita di ping-pong in cui gli avversari continuano a rimandare la pallina avvelenata dei dazi nell'altra metà campo. A Donald Trump, che nella notte di martedì aveva dettagliato le tariffe del 25% già ventilate il 22 marzo scorso su 1.300 merci del Dragone per un valore annuo di 50 miliardi di dollari, ha subito replicato ieri Pechino con misure di identico ammontare. Nel mirino 106 beni made in Usa, tra cui auto, prodotti chimici, aerei e perfino la soia. Quello delle tariffe supplementari è invece un gran calderone in cui l'amministrazione a stelle e strisce ha gettato un po' di tutto: dalle lavatrici alla componentistica nucleare; dai televisori ai farmaci; fino ad arrivare alla penale commerciale perfino sulle macchinette usate sui campi da golf. Washington ha tenuto fuori dalla black list solo le scarpe, l'abbigliamento, gli smartphone e i mobili di provenienza orientale giusto per evitare di pesare troppo sul budget domestico delle famiglie americane.
Il The Donald-pensiero è stato affidato al classico tweet: «Non siamo in guerra commerciale con la Cina, quella guerra è stata persa molti anni fa dalle persone folli o incompetenti che rappresentavano gli Stati Uniti. Adesso - ha proseguito l'inquilino della Casa Bianca - abbiamo un deficit commerciale di 500 miliardi di dollari all'anno con il furto di proprietà intellettuale di altri 300 miliardi di dollari. Non possiamo permettere che tutto ciò continui! Quando sei già sotto di 500 miliardi di dollari non puoi perdere!». In effetti, a dispetto dei 100 miliardi di dazi complessivi, non un solo colpo è stato ancora effettivamente sparato. Con l'unica eccezione delle tariffe punitive su acciaio e alluminio entrate in vigore lo scorso 23 marzo. In realtà siamo ancora alle intimidazioni, visto che non si sa se - e quando - entreranno in vigore le mosse di ritorsione annunciate. Sul versante Usa, il ruolino di marcia sembra disegnato apposta per favorire i negoziati: il titolare dell'Office of the United States Trade Representative, Robert Lighthizer, raccoglierà commenti per i prossimi 30 giorni, dopo di che si terrà il 15 maggio a Washington un'udienza pubblica, certo non decisiva per stabilire il da farsi. L'America, infatti, non si esprimerà prima che siano passati 180 giorni dalla fase di raccolta dei giudizi. E anche Pechino, pur avendo lanciato un ricorso al Wto contro il giro di vite Usa, non ha ancora precisato il timing relativo ai dazi.
Siamo insomma alle scaramucce, seppur pesanti. E questa potrebbe essere la causa che ha permesso ieri alle Borse di limitare fortemente le perdite accumulate fino a metà seduta. Non solo in Europa (-0,3% Milano dopo quattro sedute consecutive in rialzo), ma soprattutto a Wall Street, finita sotto del 2% nelle prime ore di contrattazioni e poi in calo di appena lo 0,4% a un'ora dalla chiusura. La Borsa di New York ha probabilmente pesato meglio le parole pronunciate dal segretario al Commercio, Wilbur Ross, secondo cui «le tariffe cinesi sono pari solo allo 0,3% del nostro Pil. Difficilmente rappresentano una minaccia. Non si finirà con un Armageddon commerciale. D'altra parte, anche nelle guerre dove ci si spara, si arriva, alla fine, a trattare». Di sicuro, c'è anche chi ha fatto saltare i tappi dello spumante.
Tipo coloro che hanno investito sui titoli dei produttori di carne americani come Tyson Foods, Pilgrims Pride e Sanderson Farms, tutti in forte rialzo in seguito al crollo dei prezzi dei semi di soia (usati nei mangimi per gli animali destinati al macello), causato dalle tariffe imposte dall'ex Impero Celeste.
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