Borsa e mercati

Usa, l'inflazione fa paura. E Wall Street si affloscia

Si teme un'altra stretta Fed dopo l'inatteso balzo al +5,4%. Ma è possibile una revisione al ribasso

Usa, l'inflazione fa paura. E Wall Street si affloscia

In quel gioco di specchi deformanti che sono sempre più spesso le indicazioni macroeconomiche che rimbalzano dagli Stati Uniti, si colloca di diritto anche il dato di ieri sul Pce (personal consumption expenditures price index), uno degli indicatori più monitorati dalla Federal Reserve per tastare il polso all'inflazione. Presi così come sono, gli aumenti dello 0,6% mensile in gennaio e del 5,4% su base annua (dal 5% in dicembre) indicano che il fronte dei prezzi è ancora surriscaldato. A ridosso dell'annuncio del dipartimento al Commercio, Wall Street ha infatti subito bruciato 300 punti (-1,2% a un'ora dalla chiusura), l'Europa le è andata dietro (-1% Milano e lo Stoxx600), mentre il rendimento del T-bond decennale è arrivato a sfiorare il 4%. Dietro la reazione dei mercati un ragionamento basico: il carovita è ben lungi dall'esser stato sconfitto e perciò l'istituto guidato da Jerome Powell non ha margini per allentare la presa sui tassi. Il timore è che, appena cominciata, la festa deflazionistica sia già finita. Non a caso, le possibilità di una stretta in marzo di mezzo punto, misura di nuova invocata dalla numero uno della Fed di Cleveland Loretta Mester, sono salite al 33%.

Visto che dall'andamento dell'inflazione dipende il grado di aggressività della politica monetaria e, in prospettiva, aumentano i rischi di un impatto sul ciclo congiunturale, vale però la pena di posare con attenzione la lente sul Pce. E partire dall'inatteso aumento della spesa per i consumi personali. Il balzo in un solo mese dell'1,8% è per buona parte responsabile della nuova fiammata inflazionistica, ma è avvenuto in concomitanza con due fattori che avrebbero dovuto sconsigliare un forte allargamento dei cordoni della borsa: una crescita del reddito personale limitata allo 0,6% e, soprattutto, un tasso di risparmio cresciuto del 4,7%, a 918 miliardi di dollari.

Come si spiega, quindi, il fenomeno? Con un crollo (presunto) delle tasse. Il Bureau of economic analysis (Bea) dà conto del fatto che in gennaio il totale delle imposte correnti personali è precipitato a poco meno di tremila miliardi dai precedenti 3.224 miliardi. Insomma, sembrerebbe trattarsi di minori entrate per oltre 200 miliardi, una cifra che non trova precedenti nella storia americana. Nemmeno durante la fase più acuta della pandemia (-170 miliardi) o durante la crisi finanziaria provocata dal virus dei mutui subprime (-180 miliardi). E visto che l'amministrazione Biden non ha alleggerito la pressione fiscale e che l'America non è ripiombata nella Grande recessione, il rebus si spiega - come osserva la stessa Bea - con varie revisioni storiche, aggiustamenti stagionali e approssimazioni che hanno finito per deformare le effettive disponibilità degli americani. E, di fatto, distorto anche l'andamento del Pce. Una volta corretto il peso effettivo delle tasse (probabilmente già a partire da febbraio), anche consumi e risparmi risulteranno molto più contenuti.

E, allora, forse l'inflazione tornerà a far meno paura a Wall Street e a tutti i mercati.

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