«Maneggiare con cautela». Anche calcolare il Pil può essere un esercizio pericoloso. Ne sanno qualcosa gli esperti del dipartimento al Commercio americano, incorsi in una topica clamorosa con il dato relativo al primo trimestre. Dal +0,1% della stima preliminare, poi corretto in un poco esaltante -1% nella seconda lettura, si è passati al dato definitivo, uno choccante calo del 2,9% che è quanto di peggio si è visto da quando, nel 2009, gli Stati Uniti ancora annaspavano nella recessione.
Tre punti di scarto dalla prima all'ultima rilevazione, sono un'enormità. Difficile capirne le ragioni. È probabile che l'ondata di freddo polare che ha colpito l'America lo scorso inverno abbia complicato il compito dello staff addetto al calcolo. Ma, al di là della figuraccia, rimangono gli interrogativi sulla possibilità di centrare già a partire dal secondo trimestre l'obiettivo di uno sviluppo attorno al 3%, che resta poi quello indicato dalla Federal Reserve per l'intero 2014. Del resto, prima dell'ultima frenata, il Pil era cresciuto per 14 trimestri consecutivi, ma il ritmo degli aumenti, in media il 2%, era tra i più bassi registrati in periodi di ripresa dopo una crisi dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.
La Casa Bianca ha ammesso ieri che «la ripresa dalla Grande Recessione resta incompleta». Vero. Tuttavia, resta soprattutto da capire come reagirà l'economia una volta esauritosi il piano di stimoli della Fed. Janet Yellen sta orchestrando il tapering, da febbraio, senza interruzioni: se continuerà con questo passo (10 miliardi al mese in meno), il programma di quantitative easing sarà prosciugato prima dell'autunno.
A quel punto, in assenza di nuove iniziative, l'America dovrà cavarsela da sola. E qualche dubbio sulla capacità di poter fare a meno della stampella federale è lecito averlo. Sul versante dei consumi, per esempio. Autentica spina dorsale dell'economia, le spese private hanno subìto tra gennaio e marzo una brusca battuta d'arresto, con una crescita passata da +3,1 a +1%. Troppo poco. Inoltre, non manca il problema legato alla deludente situazione delle esportazioni, diminuite dell'8,9% (-6% in base alla prima stima), anche a causa della ripresa anemica nell'Unione europea e del rallentamento della crescita in mercati emergenti come Cina e Brasile.
In prospettiva, tra l'altro, un andamento inferiore alle aspettative della ripresa Usa rischia di avere ripercussioni su Eurolandia. La contrazione del primo trimestre ha infatti ieri provocato un rafforzamento dell'euro fino a 1,3650 dollari, il massimo da inizio giugno. Il pericolo è che un ulteriore deprezzamento del biglietto verde vanifichi le misure decise dal presidente della Bce, Mario Draghi, con l'intento di indebolire la moneta unica e allontanare lo spettro della deflazione. Misure, nella fattispecie il taglio del tasso di riferimento e di quello sui depositi presso l'Eurotower (ora negativo), che per la verità non hanno finora sortito gli effetti sperati.
Sullo sfondo, l'atteggiamento indecifrabile della Germania.
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