Milano - Sta rintanata nel suo eremo semibuio, fra i gatti e i gerani di un condominio popolare nel cuore di Milano. Elena Torregiani non sta bene: l’età comincia a farsi sentire, la salute non è più quella di una volta e gli acciacchi aumentano, ma quando si parla di Cesare Battisti, va dritta al problema. Senza tentennamenti, anche se con voce strascicata: «Dovrebbe provare la sedia a rotelle. Come mio figlio Alberto. Sono passati trent’anni, ma ogni volta che lo rivedo mi sanguina il cuore. È una sofferenza senza fine, un ragazzo così bello, così simpatico, così pieno di vita, inchiodato per sempre sulla carozzella».
Dal Brasile, Battisti fa sapere che lui non c’entra con la sparatoria in cui morì suo marito e suo figlio fu colpito.
«Va bene invocare il perdono, ma voler passare anche per innocente, no. È troppo. Ma che cosa crede? Vuole prenderci in giro. È vergognoso».
Battisti perfidamente nota un altro dettaglio: il colpo che colpì Alberto fu esploso dalla pistola del padre in punto di morte. Una tragedia nella tragedia?
«No, non so nulla di questo e non lo voglio sapere. Anche perché non cambia nulla. Io quel giorno, la mattina del 16 febbraio 1979, ero dal parrucchiere, alla Bovisa, a pochi passi dalla gioielleria di mio marito; entrò di corsa un tizio gridando: «Hanno ucciso Torregiani, hanno ucciso Torregiani». Corsi in via Mercantini, ma arrivai troppo tardi. Li avevano già portati via tutti e due: Pierluigi e Alberto che era in coma. Mi sentii male, finii anch’io all’ospedale. Nella mia vita non sono mai più stata bene».
Poi cosa accadde?
«Purtroppo il disastro non finì lì».
Perché?
«Vede, Pierluigi era l’uomo più buono e onesto del mondo. E non lo dico perché era mio marito. Lui era stato sfortunato, aveva avuto una brutta malattia, non era più un uomo come gli altri. Mi capisce?».
Certo.
«Dunque, nel ’73 decidemmo insieme di adottare quei tre ragazzi che erano rimasti senza i genitori. Erano già grandicelli. Due sorelle, Annamaria e Marisa, e un fratello, Alberto, il più piccolo, che quel giorno di febbraio del 1979 stava per compiere 15 anni».
Il dramma distrusse la famiglia?
«Sì. Un po’ alla volta i ragazzi, che erano già grandi, se ne andarono. Io poi non sopportavo l’idea di vedere Alberto in quelle condizioni. E intanto, come se non bastasse, eravamo stati costretti a vendere la gioielleria. Ma sì, la mia vita è finita quel giorno».
Allora, perché non chiudere i conti con gli anni di piombo, come suggerisce il ministro della Giustizia brasiliano Tarso Genro che ha concesso a Cesare Battiti lo status di rifugiato politico?
«Un attimo. La mia vita è stata rovinata, ma chi deve pagare paghi. Battisti è scappato in Brasile, adesso vediamo cosa succederà».
Secondo lei alla fine lo estraderanno?
«Il governo Berlusconi sta facendo tutto il possibile. Va bene così. Battisti, invece di proclamare sciocchezze, dovrebbe provare sulla propria pelle la tragedia senza fine di mio figlio. Non ho più visto Alberto per tanti anni, non ce la facevo, ci siamo persi, e ci siamo ritrovati solo di recente. Dopo un lungo silenzio».
Allora, niente perdono?
«Si può perdonare chi paga il proprio conto. Battisti vada in carcere. In Italia. E poi ne riparliamo. Quella sciagurata sparatoria non ha distrutto solo la vita di mio marito, un uomo di 43 anni, ma anche le nostre. È come se il male si fosse messo in movimento, come un ghiacciaio, fino a travolgere tutto e tutti. Un’esperienza terribile, devastante, angosciosa».
Qualcuno degli ex terroristi le ha chiesto scusa?
«Ma quando mai. Io mi sono ritirata in questo appartamentino a Porta Vittoria e ho cercato di andare avanti. Modestamente. Col mio dolore. E la mia solitudine. Non è facile, ma non mi preoccupo per me. La mia sofferenza è Alberto che sta sulla sedia a rotelle».
Battisti dice che Alberto non può dire quel che pensa perché se no lo Stato gli revoca la pensione.
«Taccia. E cerchi di non raccontare più menzogne. Abbiamo già sofferto anche troppo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.