Francesca Amè
Le spirali amava farle sulla tela e nella vita, appassionato com'era di volo acrobatico. Una vita intensa, quella di Roberto Crippa, pittore monzese tra i primi collaboratori di Lucio Fontana e protagonista della stagione dello Spazialismo. Quando morì, ad appena 51 anni, stava facendo volteggi con il suo aereo sul campo di Bresso: era il lunedì di Pasqua del 1972. Da allora questo artista poliedrico, enfant prodige a Brera, amatissimo all'estero (la Rhodesia gli ha dedicato un francobollo) e con il sorriso sempre pronto, è stato un po' accantonato dalla critica. «Un caso complesso», lo ha definito il professore Luciano Caramel. Perché la poetica artistica di Crippa non procede lineare, ma è avvolgente come le sue spirali.
«Crippa anni '50 e '60» (Galleria Poleschi Arte, sino al 22 gennaio, ingresso libero) è una buona occasione per conoscere gli anni più interessanti di questo artista, di cui sono in mostra diverse opere che dal periodo spaziale approdano a una pittura che, creata con materiali quali il sughero, il legno, i collage, si trasforma in scultura. L'idea della mostra è del gallerista Vittorio Poleschi che nei suoi spazi in Foro Buonaparte ha messo insieme una trentina di pezzi che potrebbero far ingolosire i collezionisti doc. Sia detto per inciso: Crippa non è inflazionato nel mercato dell'arte del Novecento e rimane un interessante investimento per intenditori. Molto del Crippa «giovane», eccellente studente all'Accademia di Brera (anche se un po' ribelle), amico di Dova e poi sodale di Lucio Fontana, con il quale firma il terzo manifesto dello Spazialismo, si trova negli oli su tavola esposti all'inizio dell'esposizione: sono «Geometrico» e «Spirali», vorticosi segni nello spazio che affascinarono subito il pubblico per i colori e il dinamismo. Qualcuno ha parlato di geroglifici, di vortici, di ellissi: sta di fatto che in quegli anni Fontana realizzava i primi «buchi» e Crippa maturava un suo personale «discorso nello spazio», come preferiva chiamare le spirali. Il suo discorso è piaciuto molto a New York, dato che la galleria Alexander Jolas lo introdusse a dovere nell'entourage che contava Oltreoceano. Crippa, del resto, è sempre stato uno spirito libero e viaggiò in lungo e in largo tra America, Londra e Argentina.
A metà degli anni Cinquanta la sua poetica cambia, come dimostra la gran parte delle opere in mostra da Poleschi: i quadri diventano totem scuri, dove a prevalere non è più il segno dinamico della spirale, ma la materia, la consistenza della pittura. C'è un sole fatto di sughero, ci sono alcuni uccelli che volano, ci sono soprattutto personaggi senza volto: più che uomini paiono idoli (non a caso questo è il titolo di uno dei suoi lavori). Crippa sperimenta il legno, il ferro, la carta da giornale, il sughero: lavora per assemblaggi e per collage, controlla con le mani la materia e plasma giorno dopo giorno un suo mondo che profuma di mito. Le teste, la «Palizzata» (del '59, tra i lavori più intensi), i paesaggi si trasformano in totem: la pittura è corposa, importante, tridimensionale e all'occhio di oggi appare una delle più felici interpretazioni della poetica dell'oggetto che si siano avute in Italia. Quando qualche critico pensò di accostare l'opera di Crippa a Burri, il primo puntualizzò: «Credo che al simbolo tenda piuttosto la mia composizione. Essa diventa la rappresentazione emblematica dell'uomo di oggi».
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