La più lucida teoria politica sul caso italiano mi è stata rivelata ieri da uno
spacciatore di cozze in Puglia: l'Italia, mi ha detto l'acuto
cozzaro, è come una cozza, si nutre d'impurità, vive di sporcizia e
corruzione, ma quella è la sua indole e lì c'è il segreto del suo
sapore. E la cozza cruda fa male a chi è estraneo; chi ama la cozza è
immune. Il cozzaro nero ha ragione: noi che denigriamo le cozze come il
male assoluto, che le usiamo come sinonimo dispregiativo in senso
estetico (dicesi cozza una ragazza brutta) e
in senso etico (dicesi cozzaro un uomo rozzo), dovremmo rivalutare
il magnifico mitilo, gustoso sia in versione introversa (cozze in
souté) sia in versione cabrio (cozze gratinate), ma anche in
versione villosa (cozze pelose) e promiscua (con gli spaghetti, detto il
pranzo del cornuto perché la moglie lo prepara in fretta e può dunque
dedicarsi al tradimento).
Lo dico sotto effetto di una tiella barese, mitico piatto di riso, patate e cozze, che riuscirebbe a corrompere
anche Kant e la sua critica del giudizio, mentre passo da un paese a
sud di Bari che si chiama appunto Cozze.
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