Elogio di Zenga E' tornato il bullo

Non ha più il ciuffo ma usa la tv come quando ci lavorava. Sbruffone e diretto: è la parte insolente di ognuno di noi. Dopo la sceneggiata in tv Walter è di nuovo Zenga

Elogio di Zenga 
E' tornato il bullo

Beppe Di Corrado

Walter è di nuovo Zenga. Il naso storto e le parole tracotanti: «Sa che paura mi fa, Varriale». Lo sguardo, la faccia, la gomma in bocca, tutto tranne il ciuffo. Il ritorno del bullo. Vero, sfrontato e minaccioso. La tv è un altoparlante che amplifica l’accento milanese da spaccone: «Le critiche bisogna farle in faccia». Caos. Per chi tifi? Zenga o Varriale? Non c’è partita, adesso. Prendi Walter, personaggio che sbaglia, come la settimana scorsa, poi torna, vince, si presenta in diretta e abbaia: «Ah Brienza? Vedo che è informato, Varriale. Si chiama Mascara». Vince Zenga, che sa. In fondo la tv assomiglia a una porta: devi conoscere i tempi. Nero, nero, nero. In onda. Un, due, tre. Popolare come la televisione che faceva una volta da conduttore, ai tempi di Roberta Termali, una mezza dozzina di donne fa. Odeon s’illudeva di diventare la nuova Fininvest: prendeva le star dell’epoca e le sbatteva in diretta. Zenga parla semplice, adesso come allora, con una lingua che non s’è mai arresa all’idea di stare ferma: «Varriale, pensi a chi l’ha messa lì». Diretto, perché così sono gli smargiassi di periferia. Secco e frontale, senza abbassare gli occhi. Dritto in camera. La pancia della gente si colpisce così, allora YouTube lo prende e lo esalta. Uno, due, tre. Ancora i tempi.

È l’ossessione dell’uscita, forse. Lo perseguita da sempre: gli hanno fracassato l’anima per una vita con questa storia. Varriale è l’ultimo. I cross: «Vai Walter, anticipa». Zenga arrivava in ritardo e tornava il ritornello: «Non sa uscire». Un mostro tra i pali, uno capace di toglierti il pallone dalla casetta, ma di bucare come un pollo un banale traversone. Caniggia è l’incubo vero. Perché è stata quella sera di Napoli che ha sempre alimentato le cattiverie. Mondiale ’90, non aveva preso neanche un gol. Quello fu il primo: di nuca, vigliacco, bastardo. Al buio, coi suoi pugni sopra la testa bionda di quell'argentino e sopra anche quella di Riccardo Ferri. Errore. Lui non ha mai accettato: «Solo Maradona ha capito tutto. Perché lui conosce il calcio: la verità è che è stato bravo Caniggia. È riuscito ad anticipare la mia idea di anticipare lui».

L’unica volta nella vita in cui non ha parlato semplice è stato per nascondere lo sbaglio. Questo è stato il suo peccato: non ammettere. L’avesse fatto non sarebbe stato Zenga: Walter era l’Uomo Ragno, il bullo di viale Ungheria, il re della Milano boriosa degli anni Ottanta. Era la catenina fuori dalla maglietta, da baciare per ostentare un’appartenenza, era il ciuffo che cadeva sull’occhio, il sorriso da divo di Cioè, la gomma masticata in faccia al mondo. Coraggioso e presuntuoso, sfrontato e folle. «Io non ce l’ho con i settemila giornalisti sportivi che ci sono in Italia ma con quei quattro-cinque che mi odiano. Io accetto le critiche, mai la malafede». Sempre un nemico, per Walter. Una volta era Pagliuca. Più di Tacconi, perché quello prese il suo posto all’Inter e pure in Nazionale. Gianluca soffriva Zenga, la sua popolarità, la sua sfacciataggine. Poco tempo prima gli avevano chiesto se invidiava qualcosa a Zenga: «Dimostra la sua bravura quando è davanti a una telecamera». Mezzo complimento e mezza provocazione. Poi c’è stato Sacchi, che lo mise fuori dalla Nazionale. Zenga reagì alla notizia con il suo sorriso da paraculo: «Hanno ucciso l’Uomo Ragno».

Gli anni sono passati anche per questo: hanno riempito il vuoto. Zenga a Genova, poi Padova e dopo ancora l’America a Boston, ai New England Revolution. Allenatore, all’improvviso. È andato in Romania: ha vinto. Poi in Jugoslavia: ha vinto. In Italia l’aveva contattato solo Aldo Spinelli per il Livorno. Niente. L’ingaggio migliore gliel’aveva dato Maria De Filippi a «C’è posta per te»: prendeva la bici, si metteva il cappellino e si mostrava alla gente. Famoso, sorridente, rubacuori. Era la trasmissione per lui: popolare e vagamente trash, il massimo per uno che viveva per il coro di una curva. «Uno di noi», cantava la Nord. Poi arrivò l’altra: «Un Walter Zenga, c’è solo un Walter Zenga». Perché il bullo piace ed è sempre piaciuto. «Uno di noi», vuol dire molte cose, compresa quella capacità di non saper resistere alle donne, consumate con amori folgoranti e spesso rapidi. Marina Perzy la prima, poi la moglie Elvira, poi Roberta Termali, Hoara Borselli e tutte le altre. Ora c’è Raluca.

Sta a Catania, dove Zenga è arrivato per caso, con mezza Italia che pensava a una cosa veloce: come se fosse stato chiamato a fare l’esecutore testamentario di una squadra già morta.

L’ha salvata con il suo naso invadente, l’anno scorso, l’ha messa in marcia quest’anno: 21 punti in 12 partite. Chi ci credeva? Non Varriale. Walter cerca rivincite, sicuro. Vuole dire al mondo che ha sbagliato a non credere in lui prima. Lo dice in diretta, con i tempi giusti. Uno di noi, la parte insolente.

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