Milano - «Ma davvero c’è qualcuno che in buona fede pensa che una decisione del genere la si prenda a cuor leggero? Burocraticamente? Prima di decidere io per molte notti non ho dormito, e so che le stesse notti in bianco le hanno fatte i miei due colleghi. Però sono un giudice e devo applicare la legge. E in base alla legge non era possibile una decisione diversa».
Filippo Lamanna è il giudice della Corte d’appello di Milano che ha scritto la sentenza che stacca la spina ad Eluana Englaro. Dal giorno in cui lui e i suoi colleghi hanno firmato e depositato la sentenza, Lamanna sa che ogni momento è buono perché Beppino, il padre di Eluana, avvii a conclusione l’esistenza di quel che resta di sua figlia, in coma da sedici anni.
La Procura generale, che potrebbe fare ricorso, non ha ancora deciso se tentare l’ultimo passo per fermare la pratica.
«Io mi auguro che i colleghi della Procura generale decidano serenamente, e non sotto la pressione della piazza, sotto l’ondata di appelli, manifestazioni e articoli che sono in buona parte, e mi dispiace dirlo, privi di rispetto per i diritti di Eluana. Siamo davanti a una disputa tutta ideologica che spesso perde di vista Eluana e ignora la sua storia nei passaggi essenziali».
E se Eluana fosse in uno stato di serenità? Se lo è chiesto Adriano Celentano. Lei, dottore, questa domanda se la fa?
«Ecco, questo è esattamente quel che intendo quando parlo dei rischi di rendere tutto banale, di trasformare questo dramma in un circo. Noi ci siamo pronunciati in una situazione in cui nessuno, neanche la Procura generale che si batteva per una soluzione diversa, metteva in dubbio la situazione clinica. Coma irreversibile, assenza totale di coscienza. E ci siamo mossi seguendo principi fondamentali della nostra Costituzione. Articolo 32: nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario; articolo 3: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Anche gli incapaci. Anche Eluana».
Qui però non si parla di sospendere una terapia. Voi autorizzate a interrompere anche il semplice nutrimento di Eluana. Autorizzate, ha scritto qualcuno, a farla morire di fame.
«La ragazza non viene nutrita a maccheroni. Non è in grado di bere, di mangiare, di vivere autonomamente. Un sondino che entra nel naso, arriva nello stomaco e porta un mix di sostanze non può essere considerato altro che una attività terapeutica. Come tale ha diritto di essere rifiutato. Da Eluana e quindi da chi, in questo momento, la rappresenta. Cioè suo padre».
La vostra sentenza si addentra su un sentiero impervio. Fate delle ipotesi su cosa direbbe Eluana oggi se potesse parlare. Era indispensabile? Ha senso raggiungere conclusioni sulla base di frasi dette sedici anni fa, chiacchierando con gli amici?
«Non abbiamo mai attribuito a Eluana una sorta di testamento biologico. Ma le indicazioni della Cassazione, quando ci ha rinviato la decisione, erano nette: andava verificato se le scelte del tutore della ragazza erano infondate, o se invece erano basate su dati di fatto reali. Tutti gli elementi che abbiamo raccolto dimostravano che il padre di Eluana ha fatto proprie le convinzioni che ripetutamente e senza incertezze sua figlia aveva manifestato quando era in grado di farlo. Alle stesse conclusioni è arrivato anche il curatore speciale, nominato per tutelare i diritti di Eluana nell’ipotesi che il padre fosse condizionato da interessi personali. Per chi, come noi, ha conosciuto il signor Englaro era una ipotesi inverosimile. Ma è uno scrupolo che bisognava farsi. E la conclusione non è cambiata».
Come vivete
«Con la consapevolezza di avere fatto il nostro dovere. Non siamo filosofi né teologi. Siamo semplicemente dei giudici».
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