Intervistato dal Corriere della Sera, il nuovo ambasciatore americano David Thorne si è espresso in maniera piuttosto indelicata su questioni cruciali che riguardano l’Europa e in particolare l’Italia. Riferendosi alla dipendenza energetica nei riguardi dei paesi arabi e soprattutto della Russia, Thorne ha ribadito quanto già aveva affermato il 16 luglio scorso ai senatori Usa, quando aveva detto che ci «sono alcune posizioni della politica estera italiana che continuano a preoccuparci».
L’ambasciatore, in sostanza, ha lamentato una nostra eccessiva apertura verso Vladimir Putin. E questo perché la sinistra americana resta in larga misura con la testa negli anni Cinquanta e non vede di buon occhio che i governi europei stiano sviluppando un rapporto di solida cooperazione con Mosca. L’intervento appare piuttosto inopportuno. Perché è certamente vero che la questione energetica è seria, ma è in primo luogo un problema nostro.
Nel futuro ci sarà forse il nucleare, ma a quel futuro bisogna arrivarci: e ogni giorno aziende e famiglie hanno bisogno di energia. I progressisti di oltre Atlantico dovrebbero inoltre ricordare che, in un ordine politico «a sovranità limitata» quale è la Nato, il leader deve fare attenzione alle forme.
Pure nella sostanza l’intervento è discutibile. Lo sviluppo di rapporti sempre più stretti con un autocrate quale Putin solleva di sicuro interrogativi, ma è anche chiaro che soprattutto pensando alla «lunga durata» è interesse dell’Europa che si sviluppi il massimo degli scambi con la Russia, perché solo così quel Paese può de-sovietizzarsi e smettere di essere un pericolo per la pace.
Due anni fa, uno studio dell’Istituto Bruno Leoni sul tema della sicurezza energetica ha evidenziato che soltanto una maggiore integrazione economica, e in diverse direzioni, può darci un futuro meno incerto. Qui, per giunta, non si tratta soltanto di evitare di trovarsi al buio, ma anche di innescare processi che allontanino le ragioni di conflitto. Bisogna tornare alla saggezza di Frédéric Bastiat, per il quale se «le frontiere non lasciano passare le merci, prima o poi saranno attraversate dagli eserciti». Da decenni l’America è il migliore amico dell’Italia, e lo è soprattutto perché è stato il faro di quella civiltà liberale che esalta l’autonomia dei singoli contro l’autoritarismo. È proprio in questa prospettiva che già due secoli fa Thomas Jefferson, l’uomo che più di tutti ha definito l’americanismo, sottolineò come il primo compito dell’America fosse di pensare a sé, senza intromettersi negli affari altrui; e la stessa tesi si ritrova in The Proclamation on Neutrality, promulgato da George Washington il 22 aprile 1793.
I padri fondatori dell’America non volevano insomma salvare il mondo e avevano anzi una concezione ben definita dei limiti del potere federale. Erano lontani dagli incubi neo-conservatori quanto da queste nuove «attenzioni» democratiche, che rischiano di riportare in vita la Guerra fredda. Torniamo a Jefferson, e sicuramente ci si intenderà meglio.
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