Erano pagate un euro all’ora La rivolta delle schiave cinesi

Chine sulla macchina da cucine a 3 centesimi a foulard, per 16 ore, tutti i giorni, senza riposi o festività, mangiare e dormire dentro il laboratorio vicino a via Padova. E per di più chiuse e a chiave. Se volevano uscire dovevano chiederlo alla «laopainiang», la padrona, che apriva e chiudeva la porta. Fino a quando, stanche di questo sfruttamento infernale, tre cinesi si sono ribellate e hanno suonato alla compagnia dei carabinieri di Porta Monforte. Raccolta la denuncia, i militari del Nucleo operativo hanno fatto irruzione, identificato e denunciato gli «schiavisti» e messo i sigilli alla bottega e al suo magazzino. Unica sanzione davvero efficace.
La loro storia è quella di migliaia di loro connazionali che arrivano dalle campagne cinesi in cerca di fortuna in Occidente, in particolare in l’Italia. Le donne fanno solitamente un giro tortuoso: chiedono un visto turistico ai Pesi del nord Europa, tradizionalmente di manica larga in materia, poi da qui il balzo verso l’Italia. Questo il percorso fatto per esempio dalla «veterana» del gruppo, una donna di 45 anni, arrivata a Milano via Germania nel 2004 per poi installarsi a Chinatown.
Per trovare lavoro sfoglia Qiu Zhi, giornale in lingua Cinese edito e stampato in città, dove appaiono numerosi annunci. Lei inizia a fare il giro dei laboratori ricevendo numerosi rifiuti perché è clandestina. Fino a quando non capita da questa «laopainiang» che la accoglie di buon grado a cucire foulard offrendo anche vitto e alloggio nel retrobottega. Pesante l’orario di lavoro: si inizia alle 9 del mattino e si finisce alle 2 di notte, tutti i giorni, con tre pause di circa 15 minuti l’una. Il tutto per 3 centesimi a pezzo che, per una brava operaia, si traduce in circa 700 euro al mese. Sorvegliate praticamente a vista, perché per uscire bisogna chiedere il permesso alla «padrona» che custodisce in tasca la chiave per aprire loro la porta. Tanto dove devono andare: mangiano e dormono qui?
Alla sua postazione, la cinese conosce altre due connazionali, una signora di 48 anni, arrivata nel 2005 via Finlandia e una di 49, che come la prima ha fatto il giro per la Germania, ma nel 2007. Anni gomito a gomito a vedere ingrassare la «laopainiang» fino a quando hanno detto basta. Anche perché in Italia c’è un’ottima legge che induce a denunciare queste situazioni di sfruttamento: chi si presenta alle autorità riceve subito un permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabile «per motivi di giustizia». E come si sa, certe informazioni utili girano in fretta.
Così le tre donne il 30 marzo suonano ai carabinieri. Gli investigatori devono chiamare l’interprete perché le tre, nonostante siano in Italia da sette, sei e quattro anni non spiccicano una parola d’Italiano, chiuse come sono sempre state in quel microcosmo di pochi metri quadrati. Però sono decise, tanto da presentarsi da sole senza nemmeno i mariti.

I militari prendono appunti e l’altro giorno fanno irruzione nel laboratorio dove trovano, oltre alle tre coraggiose, cinesi altre due «schiave» di 48 e 49 anni. La «laopainiang» e i suoi due soci di 43 e 47 anni vengono denunciati ma soprattutto vengono messi i sigilli a laboratorio e magazzino. Un bel danno economico, l’unica vera sanzione per i tre «schiavisti».

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