«Eravamo bimbi mandati al fronte»

Giuseppe D’Audino, 48 anni, avvocato, ora presiede un circolo di An. È uno dei tre superstiti della sparatoria. Per anni non ha trovato la forza di partecipare alle manifestazioni di ricordo. Ma oggi ci sarà

«Eravamo solo un gruppo di ragazzi, uno lo conoscevo benissimo era un mio amico stretto, Franco, con gli altri due, Francesco e Stefano, facevamo politica insieme e condividevamo la militanza totale. Ma non avremmo mai pensato, nessuno di noi, che ci saremmo trovati sotto il fuoco di una mitraglietta Skorpion». Giuseppe D’Audino, 48 anni, avvocato e presidente di un circolo di An, è uno dei tre superstiti che quella sera salvarono la pelle e uscirono illesi dalla sparatoria. La strage ha segnato la sua vita in maniera indelebile. In negativo, ovviamente, ma anche in positivo. Nel senso che lui stesso spiega, così.
Cosa ha cambiato la strage di Acca Larentia nella sua vita?
«Tutto. Ero un ragazzo alla vigilia della maturità, un bambino. Facevo politica, avevo degli ideali ma non avrei mai pensato che per degli ideali si potesse pagare con la vita».
Cosa accadde subito dopo la strage?
«Mio padre mi spedì in Calabria, dove avevo dei parenti. Non riuscivo ancora a capacitarmi che tre miei amici fossero morti. Volevo dimenticare. Poi una mattina trovai i manifesti con le loro facce e i loro nomi che il Movimento sociale del luogo aveva affisso. E da allora capii che con quella storia dovevo farci i conti».
Il suo rapporto più stretto era con Franco Bigonzetti...
«Sì, eravamo nella stessa scuola, eravamo amici per la pelle. Per anni la strage per me ha significato questo. Io ero quello che si era salvato, lui era quello che era morto. E così ogni cosa che riuscivo a fare, da un esame superato all’università o addirittura il baciare una ragazza, dentro di me pensavo “io mi sono salvato, lui no, è anche per Franco, che faccio questo”. Eravamo come fratelli, la mia vita di superstite era anche una vita per Franco».
Lei per tanti anni non è riuscito a partecipare agli anniversari del 7 gennaio, è vero?
«Sì, mi sembrava sempre che ci fosse qualcosa di sbagliato, forse era dentro di me. Altre volte, era il timore che quel ricordo potesse ancora generare rabbia, odio».
E invece lei è riuscito a superarli la rabbia e l’odio?
«Ho pensato tante volte, dentro di me, che se potessi incontrare quelli che ci hanno sparato addosso la prima cosa che farei non sarebbe tentare di vendicarmi ma chiedergli perché ci odiavano così tanto».
Anche voi odiavate loro?
«Io non ho mai odiato nessuno. Però è vero che ci siamo ritrovati in una guerra, eserciti nemici. Eravamo in una guerra e non lo sapevamo».
E domani (oggi per chi legge, ndr), per il trentennale, lei invece sarà ad Acca Larentia...
«Sì, stavolta ci andrò. Anche con maggiore serenità interiore. Quando Franco è morto, aveva un anno più di me. Mi poteva essere fratello maggiore. Poi il tempo è passato, e il maggiore sono diventato io. Adesso, dopo trent’anni, mi rendo conto che potrei essere quasi suo padre».


E c’è ancora quel «rapporto» fra voi?
«Sì, lo sento con tutti i ragazzi che sono morti in quegli anni. Una strana sensazione».
Quale?
«Vorrei che se da qualche parte del cielo ci guardano, nessuno di loro pensasse che li abbiamo delusi».

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