Nostro inviato a Sorrento
Il «Signore degli scudetti» arriva a Sorrento al convegno azzurro di Marcello Dell'Utri. E decide di giocare fuori casa, di scendere in campo in un convegno politico per raccontare se stesso e la sua parabola umana e sportiva. Una presenza non casuale visto che Fabio Capello è da sempre identificato come uomo dai saldi principi berlusconiani, tanto da essere stato il primo allenatore-azienda d'Italia e visto che, nella sua schiettezza, in passato non ha mai fatto mistero di aver «votato centrodestra e in qualche occasione anche per la Lega di Umberto Bossi». E certo non si vergogna a dirlo «perché io non mi nascondo dietro una foglia di fico». Il punto, però, non sono le sue preferenze politiche ma la lezione di vita che è chiamato a pronunciare di fronte a una platea di ragazzi che vogliono formarsi culturalmente e politicamente attingendo a percorsi di eccellenza. E chi meglio di una macchina da vittoria può spiegare ai «Dell'Utri boys» la strada per il successo?
«A quindici anni sono andato via di casa, ho lasciato la famiglia, senza avere neppure il telefono a casa» racconta don Fabio. «Ricordo che scrivevo due lettere a settimana per comunicare con mio padre maestro elementare. Mi sono rotto due menischi a 18 e 20 anni, pensavo di avere la carriera rovinata e ho dovuto ripartire di nuovo. Ma il sogno mi ha alimentato: quello di arrivare in prima squadra, di andare in una grande squadra e poi in nazionale». Cita la sua terra, il tricolore e un lungo applauso lo interrompe insieme a un velo di commozione. Ma il racconto riprende. E lo sguardo del tecnico della Juventus si volge verso l'oblio che cala quando arriva la fine della carriera di un calciatore. «A 34 anni sei finito e non sai cosa fare. Io ho avuto la grande fortuna di trovare il presidente, di trovare Silvio Berlusconi. Un giorno mi disse la squadra è in difficoltà, prendila in mano.
«Io non vedevo l'ora di lasciare la scrivania e tornare sul campo. Mi ero occupato di baseball, pallavolo, rugby, hockey su ghiaccio, avevo conosciuto le problematiche dei giocatori» continua l'allenatore friulano. «Mi sentivo pronto. Vi voglio dir questo: ognuno di noi deve avere un'idea, un progetto e non pensare che la vita passi attraverso la fortuna. La fortuna non esiste, bisogna essere capaci, cogliere le occasioni e far vedere la propria perseveranza».
Il resto sono piccoli flash, ricordi di una carriera inimitabile. «Roma ha rappresentato il luogo più difficile ed esaltante dove allenare. Ma dopo che hai lavorato lì puoi farlo ovunque». L'amarezza più grande? «I Mondiali di Germania dove tornammo a casa dopo poche partite.
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