Eroe Il «fuorilegge» amato dai benpensanti

Con quella voce bassa, rugosa e quel volto che pareva scolpito nella pietra del monte Rushmore ha raccontato fino all’ultimo storie di fuorilegge, disperati e uomini che lottano per la sopravvivenza. «Ho sparato a un uomo a Reno solo per guardarlo morire», canta nel classico Folsom Prison Blues, oppure «Una mattina presto ho fatto un tiro di coca e ho sparato alla mia donna/ sono andato diritto a casa e mi son infilato a letto con la mia amata 44 sotto il cuscino» dice in Cocaine Blues. Johnny Cash è una leggenda americana ricca di contraddizioni come la sua vita; l’uomo dalla possente fede cristiana che la domenica mattina combatteva (anche lì) in chiesa per redimere le dissolutezze del sabato notte e degli altri giorni della settimana. Un «fuorilegge» che piaceva anche all’America bigotta molto più di Dylan (che fra l’altro dice sempre: «Johnny è il mio eroe»), simbolo del ragazzino ebreo arricchito che minacciava (lui sì) i fondamenti morali dell’America. «C’è un lato spirituale in me - diceva Cash - che arriva davvero nel profondo, ma sono il più grande peccatore di tutti».
Lo chiamavano «l’uomo in nero» per il suo inno Man in Black, un lungo sermone che tra l’altro recita: «Mi chiedete perché vesto sempre di nero/vesto in nero per i derelitti che vivono nella miseria delle città/ per il prigioniero che ha pagato per il suo crimine ma che è vittima dei tempi.../per le migliaia di persone che sono crepate credendo che Dio o almeno noi fossimo dalla loro parte .../Mi piacerebbe vestirmi d’arcobaleno / ma finchèci saranno torti e ingiustizie sarò l’Uomo in nero». Così s’è trasformato nel Robin Hood della musica country; ha combattuto contro le ingiustizie ma anche, sulla sua pelle, contro la droga (e dopo anni di inferno ha vinto raccontando: «La droga mi ha devastato spiritualmente; è questo che faceva più male, ero caduto tanto in basso da non riuscire a comunicare con Dio») e soprattutto con incredibile coraggio contro una forma incurabile di Parkinson. «Ho dimenticato il nome della malattia e mi rifiuto di cederle del terreno nella mia vita. Non cambierei il mio futuro con quello di nessuno», ha detto nel ’99, riprendendo a suonare e ad incidere album preziosi come la serie American Recordings.
Nick Cave disse che Cash aveva nella voce l’inferno e il paradiso. Lui, che ha vissuto sempre fuori dalle righe, ha raccolto decine di eredi spirtuali («persino Keith Richards dice: «un album di Cash è la base di ogni vera discografia rock») e di ammiratori che vanno da Bush a Quentin Tarantino, diventando al tempo stesso l’idolo dei carcerati cantando in San Quentin: «San Quintino cosa pensi di farmi? Pensi che sarò diverso quando uscirò? Mi hai piegato il cuore, la mente e l’anima e le tue pietre hanno reso ancora più freddo il mio cuore».

Del resto, come non rabbrividire al racconto, attimo per attimo, degli ultimi momenti di un condannato a morte in 25 Minutes to Go con l’incipit: «Hanno montato una forca fuori dalla mia cella e ho 25 minuti prima di andare...».

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