Firenze - «Calma, due bandiere non hanno mai fatto male a nessuno, basta fischi». Dal palco della festa del Pd tocca a Maurizio Mannoni, volto noto del Tg3 chiamato a moderare il gran dibattito di esordio tra governo e opposizione sul federalismo, tenere a bada la frastornata platea post-ds che rumoreggia inquieta.
Ospiti di primissimo piano: da una parte Tremonti, Bossi e un fosforescente Calderoli in verde e arancio; dall’altra due pezzi da novanta del Pd come Bersani e Chiamparino. E lo spettacolo che va in scena nella cornice medicea della Fortezza da Basso ha non poco di surreale: la sala dibattiti «Giorgio La Pira» pullula di camicie verdi e di insegne del Gran Ducato di Toscana sventolate da drappelli di gagliardi leghisti accorsi a festeggiare la prima volta di Bossi in partibus infidelium. Che addirittura improvvisano un minicorteo con bandiere per i viali della festa, tra gli sguardi attoniti dei militanti democrat, non ancora abituati a tanto. E dunque qualche fischio e qualche urlaccio parte contro gli ospiti inattesi, qualche battibecco si accende: «Razzisti, andatevene», strilla una ragazza. «Ma che razzisti, noi abbiamo più consiglieri comunali extracomunitari di voi, ormai», le replica un giovanotto con in t-shirt smeraldo.
Ma sono solo scaramucce: l’atmosfera resta più che civile, con le opposte claque che si dividono equamente gli applausi. Perché questo confronto bipartisan sul federalismo fiscale, che vede faccia a faccia i ministri veri dell’Economia e delle Riforme e quelli ombra, nasce come prima prova di dialogo tra Pd e centrodestra su un dossier concreto. Ci tiene molto Bossi, che incita: «Non dobbiamo litigare, dobbiamo trattare per forza». Apre Chiamparino, che spiega: «Se il governo non si muove in modo propagandistico noi siamo pronti a parlare con tutti perché è nell’interesse del Paese», e riconosce: «La bozza Calderoli è già cambiata parecchio: il dialogo ha già prodotto qualcosa, la base di confronto c’è anche se il risultato non è scontato».
Sembra tenerci anche il ministro dell’Economia Tremonti, che arriva addirittura ad evocare la «grande scelta di unità solida e costruttiva fatta negli anni Settanta col compromesso storico», con cui si assicurò «la tenuta del Paese». Ci fu un «limite», in quella stagione, perché si «accentrò tutta la finanza al centro» e si crearono le premesse per «il terzo debito pubblico del mondo». E Tremonti pare quasi auspicare un secondo «compromesso storico», per «far tornare la spesa pubblica sotto il controllo delle amministrazioni locali e quindi dei cittadini». Di certo, assicura, «il federalismo fiscale non si fa a Palazzo Chigi o in via XX settembre: si fa in Parlamento». Porte aperte dunque al dialogo col Pd. A rompere l’idillio, però, ci pensa Bersani che - nonostante le affettuose pacche sulle spalle prodigate da Bossi al «mio amico quasi lombardo», cui lui replica con un «sei grande, Umberto» - impugna la clava polemica. E si ritaglia, nel gioco interno al Pd, il ruolo di chi - lui sì - fa opposizione senza «inciuci», prendendo di petto i temi che «parlano al Paese», a cominciare dalla crisi economica. Il ministro ombra va giù duro: il federalismo fiscale può essere «utilissimo se ben fatto». Ma attenti, perché (sottinteso: fatto da Berlusconi) «può anche diventare la sciocchezza finale con cui chiudiamo i giochi». Dunque «nessuna delega generica» al governo: «E non azzardatevi a fare come con la finanziaria, su cui non ci avete lasciato aprire bocca», avverte.
Il Pd vuole vedere nero su bianco «i numeri, e quelli giusti» prima di dire un sì. Tremonti prova con la captatio benevolentiae: cita Marx su egoismo e solidarietà e «il fallimento del dio mercato», elogia il «modello toscano» di spesa sanitaria. Ma Bersani non abbocca: «Lascia a me fare la sinistra». Per il federalismo «ci vogliono almeno 5 anni: nel frattempo che fate contro l’impoverimento galoppante? La gente non può mangiare pane e federalismo». Demagogico, ma efficace sulla platea post-ds. E a Tremonti tocca rispondere a muso duro: «Tu Bersani eri ministro fino ad aprile. E ci avevate detto che i conti erano a posto, addirittura parlavate di miracolo: bugie».
Il pubblico si scalda, si divide tra fischi e applausi, Bersani fa persino il dipietrista contro un governo «che in tre giorni ha fatto una legge per cui il premier può darmi una coltellata e io gli devo pure pagare il caffè». L’idillio sembra finito prima ancora di iniziare. Bossi, andandosene, si mostra contento: «È la prima volta che si parla di federalismo fuori dalle cortine fumogene, possiamo andare avanti».
Tremonti annuisce: «Un buon dibattito, certo», ma non manca di sottolineare la «differenza di toni tra Chiamparino e Bersani». E sospira: «Immagino faccia la sua parte in commedia». Magari quella del futuro antagonista di Veltroni alla guida dell’opposizione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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