Espulsi dal questore: così gli immigrati fanno la fila al Tar

NUMERI In tre mesi già emesse 89 sentenze, 26 sono state favorevoli agli extracomunitari

C’è chi vuole il permesso di soggiorno anche se è stato condannato per sequestro di persona. Chi sostiene che a venire espulso con i suo nome e cognome è stata in realtà un’altra persona. Chi ritiene che gli sia stato negato ingiustamente l’asilo politico. Chi si è pagato regolarmente i contributi con i soldi guadagnati battendo il marciapiede in abiti femminili, e per questo chiede di poter avere il permesso di soggiorno. Tutti, indistintamente, hanno un obiettivo: poter restare in Italia. E per questo si rivolgono al Tar della Lombardia, chiedendo ai giudici amministrativi di annullare le decisioni con cui la questura ha rifiutato loro l’agognato permesso.
È un’ondata di ricorsi sempre più consistente quella che si abbatte sul Tar lombardo da parte degli stranieri irregolari. Le statistiche di questi primi tre mesi dell’anno dicono che il tribunale ha già emesso ottantanove sentenze in materia di permessi di soggiorno, praticamente una media di una al giorno, festivi compresi. Per chi si vede respingere la richiesta da parte del Questore, il ricorso al Tar è l’ultima chance prima di tornare in patria o rifugiarsi nella clandestinità. Per questo aumenta sempre di più il numero degli stranieri che, di fronte al diniego del permesso, scelgono - affrontando spese legali non indifferenti - di impugnare per via amministrativa.
Le speranze di avere successo, d’altronde, ci sono. Delle ottantanove sentenze pronunciate tra gennaio e marzo, ventisei hanno dato ragione agli immigrati. Tra queste, hanno fatto notizia - ne ha riferito il Giornale il 21 febbraio scorso - quelle che hanno annullato i fogli di via emessi a Como contro un grappolo di prostitute: «la prostituzione non è reato», avevano scritto i giudici. Ma ora si scopre, scorrendo le sentenze, che anche davanti a reati conclamati accade che i ricorrenti si vedano dare ragione: come Chedly Ben Maglouf Ben Saad, condannato per spaccio di droga; o come la signora Guarda Norina Tamara, «condannata per furto in abitazione e per furto con strappo» e la sua connazionale Marta Rubert, «indagata per furto, per possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli e per uso fraudolento di carte di credito», che si vedono annullare il foglio di via perché «il rinvio a talune condanne per furto e a indagini per reati contro il patrimonio, senza alcuna specificazione in ordine alle concrete modalità delle condotte asseritamente riferibili all’interessata, si traduce in un dato dal quale non è possibile desumere, in termini di ragionevolezza, l’attuale pericolosità».
Le sentenze, insomma, sembrano improntate a un certo garantismo, che aiuta a capire come il Tar sia diventato l’ultima spiaggia per gli stranieri in cerca di regolarizzazione. A volte il Tar sembra venire incontro a difficoltà oggettive, come quando dà ragione a due stranieri che avevano chiesto il permesso dichiarando di lavorare per ditte inesistenti, perché «non è infrequente che i lavoratori extracomunitari che si trovano in una situazione di estrema vulnerabilità sul piano lavorativo, prestino la loro opera per soggetti che svolgono la loro attività in modo illegale e che, non volendo apparire in sede di controllo, forniscano al dipendente straniero documentazione relativa a imprese operanti solo sulla carta».


Ma a volte il Tar lombardo si spinge anche più in là: come - ed è il caso più sorprendente - quando Gazmir Kacbufi, condannato in primo e secondo grado per sequestro di persona e sfruttamento della prostituzione si vede concedere il permesso di soggiorno perché non è dimostrato che sia socialmente pericoloso, «né d’altro canto tale pericolosità sociale può desumersi dagli atti del giudizio, dai quali, invece, possono desumersi elementi di segno opposto».

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