«Essere brutti non è una tragedia»

L’ argomento è destinato a tornare di moda, tanto che ci sta lavorando anche Umberto Eco. L'anno prossimo lo scrittore di Alessandria pubblicherà per Bompiani un saggio illustrato che avrà come tema l’elogio della bruttezza. Nel frattempo è appena uscito un romanzo quasi omonimo, Elogio alla bruttezza (Fanucci, pagg. 176, euro 11) di un'insegnante di scuola primaria della provincia di Perugia, Loredana Frescura, che sta registrando un lusinghiero successo di vendite. Frescura è anche autrice, insieme a Marco Tomatis di Il mondo nei tuoi occhi (sempre Fanucci), romanzo adolescenziale apparso a febbraio di quest'anno e piccolo bestseller estivo grazie al passaparola dei lettori. Se la bruttezza descritta da Eco è quella del monstrum, che da una parte ci atterrisce, ma dall'altra ci attrae morbosamente, come un incanto; quella della scrittrice perugina è più che altro uno stato d'animo profondamente connaturato al momento della crescita.
«Io sono brutta. Lo sono sempre stata e non c'è speranza di avere il medesimo destino del brutto anatroccolo che poi si scopriva cigno. Una favola con la fregatura: ecco cos'è in realtà». Così ragiona la quattordicenne Marcella, protagonista della vicenda. Lei e la sua migliore amica, anche lei bruttina, tuttavia cercano e trovano riscatto. È dunque possibile, in questo mondo d'immagini apollinee canonizzate dalla pubblicità, trovare una via d'uscita? Lo abbiamo chiesto all'autrice.
Che differenza c'è tra essere belli o brutti a quindici-sedici anni? I belli sono davvero privilegiati, i brutti sono davvero emarginati?
«In effetti sembrerebbe di sì, ma non si può generalizzare né farne una tragedia. Le protagoniste del mio libro riscrivono la Genesi e sostengono che in principio gli uomini sono stati creati tutti brutti. La bellezza è una questione di convenzioni sociali, di canoni limitati nello spazio e nel tempo».
I suoi personaggi hanno le insicurezze tipiche di ogni individuo che si sta ancora formando. Hanno soprannomi terribili, come Grande Brufolo o Enterprise (una ragazza con l'apparecchio dei denti)...
«Sì, ma in loro è sempre presente la speranza. Io non voglio trasmettere messaggi distruttivi».
I ragazzi che lei frequenta e conosce hanno coscienza della realtà?
«Così così. Quello che mi spiace nei giovani è il disamore verso l'impegno sociale. Non sanno dare il giusto peso alla realtà. Vanno in crisi per ogni piccolo problema. Forse noi adulti non siamo stati attenti, non abbiamo fatto un vaglio critico di certi effetti del progresso, come la tv e i media. Adesso cominciamo ad avvertire la necessità di stimolare i ragazzi a riappropriarsi delle proprie qualità specifiche».
Qual è il modo migliore per accettarsi da giovani?
«Mettersi al servizio della comunità. E avere una propria cultura politica, che non va confusa con la fede partitica. Avere il desiderio di migliorare le cose».
Ma nel nostro tempo e nel nostro mondo...
«L'importante è valorizzare quello che si ha di bello. Anch'io a quattordici anni volevo rifarmi il naso. Mia madre mi portò dal chirurgo plastico, ma all'ultimo decisi di restare com'ero. E non mi sono pentita. La felicità non dipende da quello, semmai è una questione di autostima».
Se il brutto anatroccolo non diventa cigno, che cosa diventa, un'anatra?
«Diciamo che diventa grande, adulto. E saprà riconoscere la bellezza vera negli altri. Però non facciamoci illusioni.

Al di là dell'edonismo superficiale dei belli fuori-brutti dentro, nel mondo ci sono tutte le combinazioni: compresa quella dei brutti fuori-brutti dentro. Un fenomeno che le ragazzine del mio romanzo chiamano il "brutto stratotale"».
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