Essere donne a Kabul e a Teheran

Noi occidentali guardiamo all’Iran preoccupati. Settanta milioni di abitanti su un territorio immenso, pari almeno a Italia, Francia, Germania e Spagna messe insieme. Un indirizzo politico determinato dalla legge islamica. Eppure il livello di alfabetizzazione è alto, e consente uno sviluppo vivace della letteratura, del cinema, delle arti. E anche del dissenso. Sono soprattutto i giovani a ribellarsi, a chiedere spazi di libertà, e per questo pagano un prezzo alto.
Il tema della repressione di regime è affrontato da Dalia Sofer ne La città delle rose (Piemme, pagg. 318, euro 16,50, trad. Caterina Lenzi). Qui il protagonista è l’ebreo Isaac Amin, accusato di spionaggio e spedito in galera. I diritti civili, come li intendiamo noi, semplicemente non esistono. Gli viene negato ogni contatto con l’esterno. E le poche notizie che filtrano dal mondo di fuori sono tutt’altro che rassicuranti, tra esecuzioni sommarie e sparizioni dei familiari. Anche la giovane Shirin si accorge che qualcosa non funziona come dovrebbe: suo padre manca da casa da giorni, e alla madre non resta che imbastire oscure trattative con le autorità, nella speranza di liberarlo.
Sempre un regime islamico è lo spunto ispiratore per il romanzo di un’altra scrittrice di origine iraniana, Siba Shakib. L’autrice vive in Occidente e ambienta La bambina che non esisteva (Piemme, in uscita l’11 marzo, pagg. 322, euro 16,50, trad.

Claudia Lionetti) in Afghanistan, o meglio tra i monti dell’Hindu Kush. Samira ha una grave colpa: è nata femmina. Anche in questo caso, nessuna speranza di appellarsi ai sacri valori della Costituzione. Meglio fingere di cambiare sesso. Altro che Giornata della donna.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica