Più di tanti altri festival, la rassegna cinematografica di Venezia (che infatti è una mostra) ha come compito quello di fare conoscere i film e gli autori migliori, così come le tendenze e le sperimentazioni, del cinema inteso come «forma d'arte». Ma inevitabilmente Venezia certifica o anticipa anche i grandi fenomeni produttivi e commerciali. Esempio. Il cambio di passo improvviso, e auspicato da tempo, con cui il nostro cinema sta provando a rispondere alla crisi di pubblico che colpisce i film italiani (i dati presentati ieri qui a Venezia dal sottosegretario Lucia Borgonzoni fanno ben sperare: l'estate 2023 nelle sale italiane è stata con 13 milioni di presenze la migliore di sempre, ma il merito, oltre alle iniziative ministeriali come il biglietto scontato è soprattutto del richiamo di titoli americani come Barbie e Oppenheimer). E la novità che emerge è sostanziale. I produttori italiani, infatti, hanno cominciato a investire nei film cifre fino a ieri impensabili, tali da rivaleggiare alla pari con quelle internazionali. E se si può discutere il livello artistico dei titoli portati quest'anno al Lido, è innegabile invece il loro livello altissimo dal punto di vista produttivo.
I sei film italiani in concorso - ma la tendenza è registrabile in tutte le sezioni - sono costati complessivamente oltre 84 milioni di euro, una media di 14 milioni ognuno (contro i 30 milioni dei quattro titoli che lo scorso anno gareggiavano per il Leone d'oro: quindi 7,5 in media). Il film d'apertura, Comandante di Edoardo De Angelis, per il quale è stato anche ricostruito a grandezza naturale un sommergibile nel porto di Taranto, è costato 15 milioni, forse di più. Finalmente l'alba di Saverio Costanzo, un'opera che guarda alla Roma-Hollywood degli anni Cinquanta, il Babylon italiano (e che passa oggi al Lido), sfiora addirittura i 30 milioni. Adagio di Stefano Sollima, regista abituato alle serie tv e ai set americani, è sui 12 milioni di budget. Io capitano di Matteo Garrone 11 e mezzo, Lubo di Giorgio Diritti oltre i sette e Enea, del giovane Pietro Castellitto, più di otto. Ci stiamo americanizzando?
«Finora in Italia eravamo abituati a film con budget medio-bassi, con evidenti limiti per quanto riguardava la ricaduta sul mercato e sul pubblico: uscire dai confini nazionali era ovviamente più difficile», è il giudizio di Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia. «Ora si assiste a un'inversione di rotta: dopo vent'anni di microproduzioni vediamo un gruppo di produttori della generazione di mezzo Lorenzo Mieli con The Apartment, Mario Gianani con Wildside, Nicola Giuliano di Indigo Film... - che ha capito una regola molto semplice, ma fondamentale. Rischio di meno se investo di più. Insomma: invece che frazionare un investimento in tanti piccoli film, meglio puntare tutto su uno solo, ma molto alto». «Che significa continua Barbera poter pensare a opere più ambiziose, poter scegliere soggetti più forti, sceneggiatori migliori, progetti più ambiziosi, grandi cast. Cioè, puntando sulla qualità, diventare competitivi con le altre cinematografie, europee e americana. Perché solo così si riaccende nel pubblico il desiderio di tornare in sala».
E la cosa non riguarda solo le opere arrivate a Venezia. Il nuovo film di Luca Guadagnino, con Daniel Craig ma qui la presenza americana è pesante costa qualcosa come 35 milioni di euro, una cifra fino a ieri improponibile per il nostro cinema. E anche il nuovo orientamento di RaiCinema, ai cui vertici, nonostante i cambiamenti a Viale Mazzini, è rimasto Paolo Del Brocco, è lo stesso: la destinazione dei fondi per i film sarà basata sul principio «Produrre meno, produrre meglio» (con conseguenti preoccupazioni però di tanti indipendenti...).
Certo, il banco di prova, per tutti, resta il botteghino. In Italia e all'estero. Cioè: cosa succede se poi il kolossal di Saverio Costanzo dovesse guadagnare tre milioni di euro, o anche dieci? E l'epico Comandante di De Angelis-Favino? Ieri Variety di fatto ha stroncato il film («Trasmette un messaggio più nobile che emozionante»).
La paura è che il mondo anglosassone non riesca a capire un prodotto troppo italiano, «famigliare», come quello sull'eroe fascista Todaro. I produttori, il regista e l'ufficio stampa internazionale sono molto preoccupati. Eccola la vera sfida.
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