di Fiamma Nirenstein
C'è qualcosa di fatale e triste, come chiedere che un racconto mal concluso trovi almeno un baleno di luce, nella richiesta di verità rivolta soprattutto allo Stato italiano che proviene dalla famiglia, dagli avvocati, dagli amici di Vittorio Arrigoni, il giovane attivista filopalestinese ucciso per mano di coloro che considerava i suoi migliori amici nella striscia di Gaza. Là, prodigandosi per i palestinesi e spargendo dal suo blog parole di fuoco contro Israele, faceva il volontario. Purtroppo fu rapito e ucciso un anno fa da un gruppo definito «salafita», ormai una specie di patente di assoluzione per tutti i loro amici appena di un grado al di sotto nella scala dei tagliagole, come Hamas e la Fratellanza Musulmana, appunto. Il dramma dell'uccisione di Arrigoni adesso continua nel rifiuto del tribunale di Gaza di celebrare il processo, nel continuo rinvio delle sedute, nella strana latitanza di alcuni accusati su un territorio minuscolo come la Striscia, e nella pesante ironia dei barbuti killer che sghignazzano in aula. C'è di che stupirsi? Certo che no in una situazione come quella di un territorio governato da un gruppo terrorista. Ed ecco che la delusione della famiglia e dei sodali di Arrigoni diventa, a sorpresa, quella che ti è stata iniettata nel sangue dall'educazione democratica e borghese. Quella della certezza del diritto. Perché, allora, chiede la famiglia, il governo italiano non interviene? Perché gli interrogatori sono ridicoli? Perché non si conosce la lista dei testimoni? Perché non si ammette che gli italiani si costituiscano parte civile? E qui, si suggerisce, non dipenderà dal fatto che l'Italia non riconosce Hamas come potere legale? Perché non si fa un processo in absentia ora che si pensa che uno dei principali accusati sia in Egitto? Si capisce bene che la signora Egidia Beretta e il suo avvocato abbiano scritto a Napolitano, ai ministri degli Esteri, della Giustizia, e chiedano conto della loro «indifferenza». Ma è qui che le due parti della questione, la richiesta di legalità e lindifferenza verso il fatto che Hamas sia un gruppo terrorista e illegale, stridono nel toccarsi, non si incontrano. Gli alleati naturali non dovrebbero essere i rappresentanti del governo, ma, per esempio i talkshow filopalestinesi senza se e senza ma; quelli che dovrebbero avere fiducia in un processo di Hamas potrebbero essere per esempio coloro che mostrano propensione per quell'organizzazione, l'arcipelago filopalestinese che ama la Flottilla, che dice che Israele non ha diritto a difendersi... in Italia ce ne sono tanti, per esempio, che so, Michele Santoro, o altri giornalisti da talk show. Vorremmo certo vedere un processo fair. Ma chi pensa di poter interagire, parlare con Hamas vive in una bolla ideologica che è la stessa che ha condannato a morte Arrigoni. L'Italia infatti l'ha messa nella sua lista di organizzazioni terroristiche, insieme all'Europa e agli Usa. Chi mai può aspettarsi un processo giusto da Hamas? Con tutto il rispetto per il suo lutto, sembra il caso che la famiglia di Arrigoni si renda conto che Arrigoni è stato ucciso per fanatismo islamista, come Daniel Pearl a Karachi, come Nick Berg in Iraq, come Fabrizio Quattrocchi, perché per gli integralisti islamici era «nemico di Dio e di Allah» e diffondeva a Gaza «il malcostume occidentale» e perché «l'Italia combatte i Paesi Musulmani». Hamas sa cosa fare ai nemici, nel periodo intorno al 2007 quando prese il potere a Gaza (luglio), furono uccisi 353 palestinesi. Svariati uomini di Fatah furono, ricordano orrificati testimoni, buttati giù dai tetti, 86 dei morti di cui 26 bambini erano passanti, le torture si sprecarono.
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