diCi sono parecchi eventi nel mondo che oggigiorno possono andare sotto il titolo «che ci importa degli Usa». È un peccato, non sono eventi positivi. Obama ha basato la sua strategia internazionale sulla volontà di spostare gli Usa dal ruolo di «nazione indispensabile» come diceva Clinton, o se si vuole di «poliziotto del mondo». Ma questo provoca degli slittamenti nel rispetto verso la democrazia e la libertà, vecchi, cari feticci dei rangers e dei navy seals. Per esempio Tayyp Erdogan, premier turco, usa con indifferenza, mentre si avvicinano le elezioni locali, il manganello contro la libertà di opinione. Ieri, come aveva promesso, ha chiuso Twitter,in seguito alle micidiali accuse di corruzione che ne provenivano per lui e la sua famiglia.
L'accesso a Twitter è stato bloccato perchè «il servizio aveva ignorato gli ordini della magistratura di rimuovere link illegali». E così 10 milioni di «user» turchi con lo schermo oscurato si sono dedicati a eludere la proibizione e ce l'hanno fatta benissimo tramite altri server. Erdogan ha detto che non gliene importa nulla delle reazioni internazionali. E infatti se gli Stati Uniti si sono subito dichiarati preoccupati di questa violazione della democrazia, e la commissaria europea per le nuove tecnologie ha definito l'atto «senza fondamento, inutile e vile» è finito il tempo in cui la Turchia era la speranza di un nesso positivo fra la cultura occidentale e l'Islam. Allora Erdogan era una star nella Nato, un pupillo di Obama che si impegnò, in modo risultato fallimentare, a ricostruire un ponte fra lui e Netanyahu: lo costrinse a telefonare a Erdogan per chieder scusa sulla vicenda della Mavi Marmara.
Adesso Erdogan, dopo avere attaccato le manifestazioni di piazza, imprigionato giornalisti, militari, dissidenti, di fronte allo slittare dell'Europa e del Medio Oriente, sente che l'amicizia americana non è più tanto importante, che Putin sale, che l'Iran conquista spazio, che intanto si stringe l'assedio guidato da Fetullah Gulen, il potente clerico che lo odia. E così si chiude in un regime di assedio in cui non c'è bisogno di nessuno, e in cui le «preoccupazioni» di Obama suonano flebili. Si può notare un atteggiamento simile nel leader supremo dell'Iran, Khamenei. Il grande Ayatollah non si lasciava andare dal tempo di Ahmadinejad a negare la Shoah. Era stata una mossa strategica lasciare che il «moderato» presidente Rouhani dicesse che sì, gli pareva che il popolo tedesco avesse fatto qualcosa di male agli ebrei. Fa parte della trattativa con il P5+1 sull'arricchimento dell'uranio e quindi dell'ammorbidimento delle sanzioni. Obama gioca sul successo delle trattative la sua eredità ideale, la sua incerta «legacy». Il revisionismo dell'Iran è sempre andato a braccetto con l'odio antiamericano, e ieri il ritorno alla negazione della Shoah è andato insieme al solito disprezzo per gli Usa, il maggiore sponsor dell'accordo che l'Iran cerca.
Ma Khamenei ha accusato Obama di «aver fallito» in Palestina e in Siria e di «cospirare» con Israele. Sullo sfondo, di nuovo, l'amico russo che invece non ha sbagliato niente, sta dalla parte giusta in Siria e se la ride delle sanzioni. Come Khamenei.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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