L'inchiesta sui marò resterà nelle mani della polizia antiterrorismo indiana e a livello teorico non si può escludere l'applicazione della pena di morte. Non si può neanche immaginare che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengano veramente condannati a morte. Il governo italiano, però, è stato miseramente sbugiardato. Ieri il presidente del massimo organismo indiano, Altamas Kabir, ha sostenuto con un'ordinanza scritta che «non è responsabilità della Corte Suprema decidere quale tipo di agenzia di polizia utilizzare per le indagini». La Corte ha sottolineato che spetta al governo la facoltà di usare l'organismo investigativo «più appropriato».
L'esecutivo aveva già incaricato la Nia, una specie di Fbi indiana, che indaga sui casi di terrorismo, come se i marò fossero nipotini di Osama bin Laden. Non solo: l'agenzia, nella sua relazione preliminare, ha ripreso tutti gli estremi dell'accusa per l'omicidio di due pescatori in alto mare, contro Latorre e Girone, già previsti nello stato del Kerala dove è cominciata la disavventura dei fucilieri del San Marco. Uno di questi è il controverso Sua act, una legge del 2002 sulla sicurezza marittima, che prevede la pena di morte.
Nelle ultime settimane il presidente del Consiglio Mario Monti ed il viceministro degli Esteri, Staffan De Mistura, avevano strombazzato ai quattro venti che la polizia antiterrorismo e tantomeno l'ipotesi, seppur teorica, della pena di morte mai avrebbe riguardato il caso marò. Adesso scopriamo da Delhi che la realtà è ben diversa. La Corte suprema ha praticamente confermato che l'agenzia antiterrorismo condurrà le indagini e ha ordinato di «completarle speditamente». I giudici hanno pure deciso che Latorre e Girone sono a disposizione della Patiala House court della capitale, una specie di tribunale speciale incaricato ad hoc, che si occuperà solo di questo caso.
La Caporetto finale del governo tecnico sta provocando in rete una rabbia montante fra i sostenitori dei fucilieri del reggimento San Marco. L'aspetto più grave è che l'Italia sembra aver rinunciato alla linea del Piave della giurisdizione rassegnandosi al processo ai marò in India, dove la sentenza di condanna è già scritta. Anche l'idea dell'arbitrato internazionale, portata avanti dall'allora ministro degli Esteri, Giulio Terzi, sembra essersi vaporizzata dopo il voltafaccia di Palazzo Chigi, che ha deciso di riconsegnare i marò a Delhi. «L'India sta continuando in un atteggiamento che viola il diritto internazionale. L'Italia deve continuare a battersi perchè i due marò vengano giudicati dai nostri tribunali o davanti un giudice internazionale», spiega Angela Del Vecchio, docente di Diritto internazionale alla Luiss di Roma. E aggiunge: «Il problema è che l'Italia, non si capisce perché, non vuole andare davanti a un giudice internazionale, lo potrebbe fare oggi stesso. Dovremmo chiederlo alla politica».
Grazie al calabraghismo montiano il processo in India sembra oramai inevitabile. Se i marò, come è fortemente probabile, venissero condannati per omicidio potranno scontare la pena in Italia. L'alternativa, molto remota, è la grazia da parte dell'India.
La sentenza definitiva di condanna, secondo il trattato con Delhi approvato in fretta e furia la scorsa estate, deve venir riconosciuta dalla nostra legislazione. E per assurdo, se fosse superiore ai 5 anni, il rischio è che i marò vengano radiati dalle forze armate.
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