Francisco Garzon Amo, il macchinista della strage ferroviaria di Santiago, non è né un fanatico criminale (tipo Anders Behring Breivik che nel 2011 tra Oslo e Utoya ammazzò 77 giovani), né un folle assassino (tipo James Holmes, il «Batman» pluriomicida del cinema Aurora in Colorado dove nel 2012 uccise 12 spettatori). Eppure Francisco ha qualcosa che lo accumuna a Breivik e a Holmes: un filo virtuale che lega il momento della tragedia agli «sfoghi» dei giorni precedenti sui social network. «Sfoghi» che, in qualche modo, risultano «anticipare» il dramma che si sarebbe consumato da lì a poche ore. Persone apparentemente «semplici» che si trasformano in qualcosa di diverso, profondamente diverso.
Anche Francisco Garzon Amo è (era) un «semplice» macchinista delle ferrovie spagnole. Ma uno che ha la possibilità di sfrecciare a 200 km all'ora non è mai un «semplice» lavoratore. È uno che rischia di sentirsi un eletto da Dio, un superuomo con poteri da supereroe. E Francisco si sentiva forse un po' Flash, il personaggio della Marvel più veloce dell'universo. Vanno lette così - ma col senno di poi, diventa un esercizio fin troppo facile - quelle frasi assurde con cui Francisco si vantava delle sue performance professionali: «Sto andando a 200 all'ora, non c'è trucco»; «Come sarebbe bello fare una gara con la polizia, e superarla...»; «Anche oggi si corre alla grande...». Di messaggi dello stesso tenore è zeppa la bacheca facebook di Francisco; e forse tra queste stesse vanterie il macchinista della strage di Santiago si stava crogiolando un attimo prima dello schianto fatale. Forse lo stava facendo addirittura al telefono, almeno così ipotizzano gli inquirenti. E già pare di vederlo - di sentirlo - Francesco, con quella sua faccia un po' così da supereroe mancato: «Ti dico che sto andando a 200 all'ora, sì lo sto facendo in un tratto dove dovrei andare a 90. Ma sono in ritardo, devo recuperare, ora c'è la curva...». Poi il dramma. Ma Francisco - come testimoniano le foto scattate subito dopo la sciagura - non molla in telefonino, continua a parlare chissà con chi, chissà di cosa. Ai soccorritori dice: «Siamo umani, possiamo sbagliare»; «Speriamo che non ci siano vittime»; e poi: «Voglio morire».
Ma lui è vivo, a morire sono stati invece 78 poveri cristi. Francisco, l'unica volta in cui sta zitto, è davanti agli investigatori: non si assume le proprie responsabilità, non chiede scusa. Ha rinunciato anche allo psicologo. Proprio come fece il nazista Brevik all'indomani della strage di Utoya, quando ribadì: «Non ho nulla di cui pentirmi. Devo ripulire il mondo dagli scarafaggi che infettano la purezza della nostra razza»; esattamente la stessa frase che era in bella evidenza sul suo profilo facebook due giorni prima della mattanza. Idem per Cho Seung-hi, il vendicatore del Virginia Tech College che, prima di ammazzare 32 studenti, scrisse sul pc che lui «avrebbe ripristinato l'ordine nel college». Più o meno la stessa «missione» di cui si sentiva investito James Holmes, 23 anni, che, travestito da Batman, trucidò 12 spettatori in un cinema del Colorado al grido di: «Sono il Cavaliere nero, Dio è con me». Storie diverse, certo, da quella del macchinista spagnolo, eppure agganciate da una medesima traettoria psicologica che trasforma fantasia virtuale in realtà grondante sangue. Ma le indagini sul disastro di Santiago, più che di elucubrazioni figlie del senno di poi, necessitano di riscontri fattuali.
El Mundo scrive sulla sua edizione online: «Il macchinista del treno deragliato potrebbe essersi distratto perché parlava al telefono cellulare».Strano tipo Francisco, con quella faccia un po' così. Così come? Diciamo di bronzo.
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