A Hong Kong anche se hai la maggioranza dei voti del popolo resti sempre una minoranza nella stanza dei bottoni, perché devono governare i fedelissimi dei furbi mandarini comunisti di Pechino. Il sistema per ingannare la democrazia è semplice: dei 70 seggi dell'assemblea locale solo 40 sono eletti direttamente dal popolo. Il resto viene scelto da gruppi molto simili alle corporazioni del ventennio fascista. I membri sono imprenditori o altre figure notoriamente vicine, per motivi di interesse, al potere comunista cinese. Se poi ci aggiungiamo la cronica divisione del fronte democratico, che spesso si presenta con candidati contrapposti per lo stesso seggio, la frittata è servita. «Abbiamo la maggioranza dei voti, ma meno seggi. È un risultato tragico» ha sentenziato Ronny Tong del Partito civico di Hong Kong.
Nell'ex colonia britannica, che gode di un particolare status amministrativo e almeno non deve votare per il partito unico, ci si attendeva un boom dei democratici nelle elezioni di domenica. Soprattutto dopo le proteste di massa con tanto di scontri con la polizia per il tentativo degli amici di Pechino al potere a Hong Kong di imporre una «educazione morale e nazionale» nelle scuole. Uno dei passaggi più istruttivi da insegnare agli studenti di Hong Kong non lasciava dubbi: «I sistemi a partito unico sono migliori di quelli multipartitici, in quanto più stabili e altruisti». Entro il 2015 il nuovo corso di «morale» patriottica e comunista doveva entrare in vigore in tutte le scuole.
Le forze pro democratiche hanno conquistato 21 seggi «veri», ovvero votati direttamente dal popolo, battendo i filo Pechino che ne hanno presi 19. Non solo: rispetto alle precedenti elezioni del 2008 sono molti di più gli abitanti di Hong Kong andati a votare. Stiamo parlando del 53% dei tre milioni e mezzo di residenti con un'impennata dell'8%. E il bello è che il 60% degli elettori diretti ha scelto le forze pro democratiche. Gli osservatori concordano che l'incrementata affluenza alle urne è dettata proprio dall'insofferenza con il potere filo Pechino.
La doccia fredda è arrivata con il voto delle «corporazioni» sui 30 seggi non sottoposti al suffragio diretto. I democratici ne hanno ottenuti solo 6 grazie alla stragrande maggioranza degli aventi diritto legati al regime cinese. Il risultato finale delle alchimie elettorali dei mandarini rossi è che l'organo di autogoverno di Hong Kong conta su 43 teste filo Pechino contro le 27 che vogliono la piena democrazia. E a questo punto rischiano di non averla mai.
Per fortuna i democratici sono riusciti a mantenere la soglia che permette all'opposizione di porre il veto sulle leggi significative di Hong Kong. A cominciare dai cambiamenti costituzionali di questa regione cinese semi autonoma che contemplano la piena democrazia. La debacle però è cocente a tal punto che lo storico leader, Albert Ho, si è dimesso dalla guida del Partito democratico invocando «una profonda riflessione per le riforme del futuro». I filo Pechino, più compatti, organizzati e ben finanziati dalla capitale comunque fregano sempre chi non vuole il sistema comunista.
Nonostante sia in aumento l'insoddisfazione popolare per l'aumento dei prezzi delle proprietà, la corruzione e gli ospedali sovraffollati grazie a pazienti che arrivano dall'entroterra cinese. L'ultima trovata del Chief executive, Leung Chun-ying, che guida Hong Kong da luglio, era stata la nuova morale patriottica nelle scuole. Un giorno prima delle elezioni i centomila abitanti di Hong Kong scesi in piazza l'hanno costretto a fare marcia indietro rimandando l'applicazione della direttiva. L'obiettivo era inculcare nei giovani «l'amore per la madrepatria» in mano al partito unico con la bandiera rossa. Il sistema elettorale abilmente pilotato dai mandarini comunisti ha confermato Leung Chun-ying per quattro anni, ma prima o dopo i nodi verrano al pettine.
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