"Ecco come ho organizzato i volontari per la campagna di Obama"

Alfonso Ricciardelli, 29 anni, ha mollato un lavoro ben pagato a Bruxelles per partecipare alla campagna elettorale per Obama. Si è occupato dell'organizzazione dei volontari a Brooklyn e ad Harlem. E ci racconta la sua esperienza

"Ecco come ho organizzato i volontari per la campagna di Obama"

“Noi ci siamo organizzati con grande anticipo e abbiamo fatto una campagna elettorale basata sulla precisione dell'organizzazione e della pianificazione”.

C'è un tale senso di identificazione e di appartenenza nelle sue parole che più volte si ha la sensazione di stare a parlare con un americano. Invece, Alfonso Ricciardelli, classe 1983, è italiano, precisamente di Napoli. A Bruxelles per anni ha fatto il lobbista (figura professionale che rappresenta presso le istituzioni gli interessi di un'industria, di un'azienda o altro) e ha creato un blog (thestrasbourger) seguito dagli addetti ai lavori, ma poi, stanco della politica fatta dietro le quinte, ha deciso di passare a quella attiva sul campo.

Cos'è che ha fatto scattare la molla?

“Quando Barack Obama ha lanciato il programma Fellowship (una sorta di stage operativo per conoscere, imparare e approfondire gli aspetti della campagna elettorale, ndr) io avevo vinto una borsa di studio alla New York University e così ho deciso di provare”.

A diventare organizzatore di volontari.

Sì. Ho fatto una application on line, ho mandato il mio curriculum con una lettera di motivazione, ho avuto un colloquio telefonico e poi ho preso un aereo e ho fatto la selezione”.

Da lì, hai lasciato un lavoro ben pagato a Bruxelles e nel giro di 15 giorni sei partito.


“Ho cominciato a lavorare il 2 giugno 2012. Mi hanno assegnato ad una zona di New York - precisamente di Brooklyn - che non è esattamente la New York dei grattacieli e dei negozi... Poi, a settembre, sono stato spostato ad Harlem".

In cosa consisteva il tuo lavoro?

Nella ricerca, selezione e organizzazione dei volontari: ero un po’ come un allenatore…”

Come viene svolto nella pratica?


In base alla comunità di cui ti occupi, prima ti vengono consegnate dei dati in base ai quali devi trovare volontari disposti a fare campagna per Obama usando mezzi disparati: dalle semplici telefonate alla ricerca porta a porta”.


Una cosa che in Italia ormai difficilmente si ritrova.

Infatti l'elemento che più mi mancava era la partecipazione e la praticità, il fatto di lavorare sul campo. Vedo poco attivismo in Italia, tante chiacchiere e tante discussioni, ma non c'è nessuno che prende una cartellina di legno e bussa alle porte per chiederti se ti interessa questo argomento. Non c'è spirito di comunità, attenzione dei cittadini ai loro stessi problemi”.

Su cosa è stata impostata la campagna elettorale?

Si è basata su un mix eccezionale di nuove e vecchio. Il primo rappresentato dalle tecnologie (loro hanno un social network che si chiama "dashboard", una sorta di Facebook in cui i volontari interagiscono, si scambiano "best practices", e identificano problemi e possibili soluzioni), il secondo dalle tradizionali telefonate, dal porta a porta e dell'antico rapporto con la comunità”.

I punti forti della vostra campagna?


“Siamo andati nelle comunità più povere, per esempio in Pennsylvania, a lungo in bilico per tanti mesi. Il coraggio di recarsi in queste comunità, anche pericolose, dove hai la percezione della povertà e dell'emarginazione e riuscire ugualmente a creare un minimo di cultura politica è una cosa che fa la differenza”.

A proposito di differenze. Cosa avevate in più rispetto alla campagna repubblicana?

"La registrazione dei votanti, che i repubblicani fanno in modo dilettantistico, per la campagna dei democratici è una cosa scientifica. In generale, il "ground game", un'organizzazione sul campo meticolosa e precisa. Tanto per dare un'idea, in Ohio Romney aveva 35 uffici; noi, 145. Tutto questo, per aiutare le categorie deboli, che non hanno tempo né cultura per andare a votare: noi li aiutiamo a capire che anche loro contano. La nostra campagna è stata importante proprio perché abbiamo convinto una fascia della popolazione che di solito non va a votare. C'è uno sforzo enorme di educazione e di apertura che i repubblicani hanno deriso per molto tempo. Ora non ridono più..."

Eppure il giorno dopo il primo faccia a faccia con Romney, c'era chi parlava di débâcle di Obama.

“Gli americani sono dei datori di lavoro molto severi per cui se tu sei presidente, anche se sei straordinario, devi dare risultati, altrimenti vieni licenziato. Nel primo dibattito gli americani si sono arrabbiati perché Obama non sembrava motivato a fare il suo lavoro. Ma comunque non sarebbe cambiato nulla”.

In che senso?


La campagna elettorale era cominciata così presto ed era stata pianificata in maniera così precisa che i dibattiti e le campagne repubblicane anti-Obama non hanno avuto alcuna efficacia”. Solo in Ohio, abbiamo fatto milioni di telefonate e abbiamo bussato a migliaia di porte: il contatto diretto con l’elettore non si batte con nessuna pubblicità negativa.

Non è un ragionamento un po' presuntuoso?


“Noi abbiamo vinto grazie alla campagna sul campo e alla struttura talmente organizzata che nel momento in cui la campagna repubblicana ha raggiunto il suo apice ormai era tardi. I repubblicani hanno cercato in tutti i modi di promuovere l'astensione; con campagne pubblicitarie negative e con legislazioni statali (negli Stati Uniti le modalità del voto sono decise dai singoli stati, nda) restrittive (per esempio, chiusura anticipata delle urne, limitazione del voto anticipato, obbligo di identificazion...); ma, ripeto, la nostra organizzazione è stata ineccepibile".

Qual è il senso di queste elezioni?


“Hanno dimostrato che c'è tutta una generazione che si è appassionata alla politica ed è entrata in politica grazie a Obama. Questa generazione è formata dai politici del futuro. Gli organizzatori di oggi nei prossimi quattro anni si candideranno e sanno già come vincere”.

Anche Obama era un organizzatore di comunità.

Lo è ancora oggi. Quando ci ha ringraziato a New York e ha detto grazie ai volontari e agli organizzatori, io l'ho sentito come un ringraziamento nei miei confronti. Lui, nel suo cuore è rimasto un community organizer. Tra l'altro piangeva al telefono, il mercoledì...”.

Che impressione hai avuto di lui dal vivo, tu che sei abituato ad avere a che fare coi politici?

“Io dei politici non mi fido mai. Però ti posso dire che è una persona vera, sincera. Lui ha cambiato il paese e il modo di fare le campagne elettorali. Dicono che sia uno che vuole sempre essere il migliore. E lui, essendo afroamericano, deve dimostrare due volte di esserlo”.

Mentre parliamo, alla porta di Alfonso bussa un ragazzo che chiede di firmare una petizione.

Due battute in americano, una firma e Alfonso mi spiega che quando c'è stato l'uragano Sandy abitava al 55esimo piano e non c'era elettricità. Così alcuni condomini si sono arrabbiati e hanno chiesto un generatore elettrico.“Vedi. Questa è un'altra dimostrazione di come gli americani siano sempre coinvolti nei problemi della loro comunità”.

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