A riaccendere le polveri domenica mattina nel centro di Kiev dopo qualche giorno di tregua apparente erano stati, è vero, gli antigovernativi. Infuriati dalla notizia che il Parlamento - la cui maggioranza è in mano al partito filorusso di Viktor Yanukovich, con il sostegno determinante del mai defunto partito comunista - non avrebbe discusso la proposta dell'opposizione di ridurre i poteri del presidente, hanno reagito in tutta fretta marciando sul Parlamento stesso per farvi irruzione. Nella folla c'era di tutto, dai giovani con mimetica e molotov alle anziane donne pronte a passare loro i blocchetti di porfido strappati dal selciato da scagliare contro la polizia. Solo nella tarda serata Yanukovich ha annunciato una vera «tregua» e la ripresa dei colloqui con l'opposizione per «fermare il bagno di sangue».
Ma siamo in Ucraina: qui la polizia fa sul serio, anche troppo, perché prende ordini da un potere duro a Kiev che a sua volta risponde del suo operato a uno altro altrettanto duro a Mosca. Un potere questo che a parole nega sdegnato il suo ruolo di «poliziotto dei poliziotti», ma nei fatti lo conferma continuando a denunciare le «interferenze» di europei e americani in un Paese che non è il suo. La reazione delle forze di sicurezza all'assalto della piazza è stata pesantissima: sui due fronti si contano già 26 morti e circa 400 feriti, un massacro che fa gridare gli occidentali, Italia compresa, al «rischio inaccettabile di una guerra civile alle porte dell'Europa».
Questa volta la repressione è senza misure. Perché in Ucraina non ci sono ormai più finzioni da inscenare: le parti contrapposte non sono in grado di trovare un compromesso, nessuna delle due lo vuole. Yanukovich non ha alcuna intenzione di cedere il potere, e meno che mai Putin è disposto ad assistere alla vittoria dei suoi avversari, sia che questa avvenga attraverso elezioni anticipate che comunque non saranno concesse, sia che il loro avvento al potere passi per via violenta dalle barricate di Kiev e Leopoli, il che è ancor più inverosimile. I nazionalisti filoeuropei non vedono ragione per cedere: sperano - e s'illudono tragicamente - in un sostegno decisivo da parte dell'Europa e dell'America, e comunque sanno che in un Paese come il loro chi perde certi bracci di ferro fa una pessima fine.
La battaglia dunque continuerà ad onta dei moniti parolai occidentali (ieri sera Obama ha minacciato «conseguenze se si passerà il limite delle violenze sui cittadini», ma visto come è andata a finire in Siria è lecito dubitare dell'efficacia di questo richiamo), anche se è difficile prevedere per quanto tempo ancora. Illuminano sinistramente il futuro l'annuncio dei servizi di sicurezza ucraini del lancio di «un'operazione antiterrorismo in tutto il Paese» e quello del governo di far intervenire in piazza l'esercito.
A questo punto una soluzione potrebbe venire solo dall'esterno, e forse la telefonata di ieri della Cancelliera tedesca Merkel al presidente russo Putin, che annuncia «uno stretto coordinamento» con la Russia, potrebbe evitare un'ulteriore drammatica escalation di violenze. Ancora ieri Mosca rilanciava le sue parole d'ordine: dietro le violenze degli estremisti antirussi ci sono politici europei irresponsabili che soffiano sul fuoco e bisogna «evitare una nuova Jugoslavia» (e con essa, ma questo non viene esplicitato, il rischio che il prossimo regime poliziesco a rischio di collasso sia proprio quello russo). Intanto l'Ue annuncia l'imminente arrivo a Kiev dei ministri degli Esteri francese, tedesco e polacco «per valutare». Ma il precedente colloquio tra i leader dei due Paesi che hanno i più forti interessi in Ucraina potrebbe rivelarsi la mossa decisiva per sbloccare la situazione.
Il sangue di Kiev, infine, cola purtroppo anche sulle vicine Olimpiadi invernali di Sochi in Russia.
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