L’analisi

Tutte le grandi rivoluzioni, quella francese, quella americana, quella russa, quelle nazionali, oltre che sul sangue degli eroi nascono su pile di libri, sulle parole dei filosofi e dei grandi leader. Naturalmente a noi occidentali le rivoluzioni piacciono molto, sono i motori, le levatrici della nostra storia. E forse questo ci porta a fare pesanti errori nella valutazione dell'immenso spettacolo cui assistiamo oggi, della piazza araba in fiamme, dello spettacolo estetico e morale dei moti mediorentali e nordafricani. Noi, pensando che ne nasca democrazia e pace, l'abbiamo chiamata «primavera», e non c'è parola più ricca di gemme. Ma il Nuovo Medio Oriente è ancora una volta da rimandare. Non si vede né maggiore libertà né una sistemazione internazionale vantaggiosa per la pace. Tutt'altro.
In Egitto il nuovo potere militare ha represso il popolo in piazza Tahrir proprio come quello vecchio. Il 77 per cento della popolazione ha votato per una riforma costituzionale disegnata dai Fratelli Musulmani che, con travestimenti tolleranti destinati a sfiorire, si avvicinano al potere. Il governo provvisorio, e questo è uno dei peggiori guai in vista, sta approntando un trattato di amicizia con l'Iran. Intanto ha smesso di costruire il muro con Gaza che impediva il passaggio di armi e uomini di una pedina base dell'Iran, Hamas; non c'è forza politica che, in vista delle elezioni, non annunci un ridimensionamento della pace con Israele, e i Fratelli Musulmani hanno dichiarato che «dato che Israele in Medio Oriente lo odiano tutti, deve sparire».
Il trattato con l'Iran è conseguenza della distruttiva debolezza americana: quando era in corso la rivoluzione liberale contro il regime degli ayatollah nel 2009 Obama si mostrò indifferente, e dette a Ahmadinejad la sensazione di poter fare tutto quello che gli pare sia nel campo della costruzione del nucleare che dei diritti umani. E così è stato. L'Iran ha approfittato della paralisi americana per rilanciare il programma nucleare vantandosene, ha ottenuto dall'Egitto il passaggio nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez, cosa mai avvenuta prima. Proprio davanti alle coste di Israele, e adesso costruisce una base iraniana permanente sulla costa siriana. L'Iran ha in mano il Libano, con i missili degli Hezbollah puntati su Tel Aviv, e Gaza, dove Hamas lavora al nuovo rapporto con l'Egitto, puntando sui suoi sodali Fratelli Musulmani. El Baradei, candidato laico alla presidenza: ha dichiarato che se Israele dovesse attaccare Gaza, l'Egitto scenderebbe in guerra al fianco di Hamas! La novità in vista è dunque un'alleanza fra Iran e i Fratelli Musulmani egiziani per una guerra a Israele imperniata su Hamas, mentre dal Libano Hezbollah è pronto e agli ordini degli ayatollah.
Hamas dà pensiero anche al re giordano Abdullah, dato che nel suo Paese il 75% della popolazione è palestinese, e fra questi una buona parte è integralista. Abdullah sa che potrebbe distruggere la dinastia ashemita. Con una lettera a Bashar Assad, il rais siriano assediato da una rivoluzione che ha già avuto i suoi 200 uccisi dal regime, propone un'alleanza riformatrice e si riferisce a Israele, nonostante il trattato di pace, come a un nemico mestatore. Una tendenza che di nuovo si presenta prepotente adesso che i dittatori non sanno su chi scaricare le loro disgrazie. Anche Ahmadinejad ieri ha dichiarato che prevede un Medio Oriente senza Israele. In Siria, Bashar intanto gioca con suo fratello Maher a good cop e bad cop. Il dittatore alawita chiama «martiri» i ribelli uccisi dal fratello per suo ordine, e prende misure libertarie eccezionali, figurarsi che intende permettere alle donne di indossare il hijab. A restare al potere lo aiuta l'ambiguità americana che nei mesi passati ha cercato di strapparlo all'asse con l'Iran, un asse cui aderisce anche la Turchia, e spera ancora di farne un alleato, nonostante sia chiaro che la sopravvivenza della sua fragile setta sciita in un mondo per l'80 per cento sunnita, è oggi nelle mani dell'Iran.
Sullo scenario libico le cose non vanno bene, compreso il disvelarsi di astiosi contrasti nel mondo occidentale: l'incertezza nell'intervenire ha preso tempo prezioso; la destituzione di Gheddafi è incerta; i ribelli, confusi e inaffidabili in battaglia, sono tipi inaffidabili che pare abbiano venduto a Hamas e agli hezbollah migliaia di proiettili a gas nervino e mostarda, e che abbiano fra i capi personaggi come il colonnello Khoftar, per oltre vent'anni in Afghanistan come membro del gruppo libico islamico di combattimento. Non una patente di liberalità e democrazia. Il Sudan è ormai pista di rifornimento di armi iraniane e di Al Qaeda. Lo Yemen è un astruso mosaico di odi tribali e religiosi ormai senza controllo. Nel Golfo l'Arabia Saudita, a sua volta contestata e quindi ancora peggio quanto a libertà civili e diritti umani, è in armi contro l'espansionismo iraniano che prende piede in Bahrain contro la minora nza sunnita.


Tutta la nuova confusione ha una sua traduzione diplomatica micidiale, in cui balbettiamo di libertà e democrazia senza un oggetto concreto, un gruppo, una realtà civile, cui riferirci e in cui di nuovo la tentazione europea e di Obama è quella di scaricare gli incubi su Israele: l'Onu programma per settembre una risoluzione unilaterale di riconoscimento di uno Stato Palestinese contro tutte le risoluzioni che prevedono sempre una trattativa che garantisca la sicurezza di Israele. Uno stupido modo di placare il moloch arabo in trasformazione.

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