L’esercito di Assad spara sui profughi siriani in Turchia

L’esercito di Assad spara sui profughi siriani in Turchia

«Se simili eventi si ripeteranno, deve essere chiaro che noi prenderemo le misure appropriate». Ha parlato chiaro il ministero turco degli Esteri dopo che ieri l’esercito siriano ha sparato - secondo la versione fornita da Ankara - contro civili in fuga dal Paese e già entrati nel territorio della Turchia, uccidendo due persone e ferendone altre ventuno.
Ankara, che ospita migliaia di profughi siriani, ha fatto sapere che vengono svolte indagini per chiarire se si trattasse «di una sparatoria al confine o di un attacco contro di noi». Questo perché sembra che all’origine della mortale sparatoria in territorio turco ci sia stato uno scontro a fuoco tra esercito e rivoltosi iniziato in Siria, e poi trasferitosi oltre confine fino a interessare il campo profughi vicno a Kilis, nella provincia turca di Gaziantep.
In ogni caso, aggiunge la fonte del governo turco, il termine della data odierna come l’ultima fissata dalle Nazioni Unite per il cessate il fuoco tra le truppe del governo siriano e i disertori che cercano di abbatterlo «non deve più essere considerato valido». In un comunicato, il ministero degli Esteri turco ribadisce che «il regime siriano deve metter fine alla sua campagna di violenze contro il suo popolo immediatamente e la comunità internazionale deve agire per garantire che ciò avvenga».
L’incidente al confine, che è avvenuto in piena notte , rischia di avere effettivamente serie ripercussioni: tra i feriti ci sono infatti infatti anche un interprete e un poliziotto turchi. Oggi l’inviato dell’Onu, Kofi Annan, sarà in Turchia per visitare i campi che ospitano i rifugiati siriani.
I confini della Siria erano ieri particolarmente caldi, se si pensa che alla frontiera con il Libano (ma anche in qui oltrefrontiera, e quindi in territorio libanese) è rimasto ucciso da uno sparo partito dal territorio siriano un cameraman di una televisione libanese. La troupe sarebbe stata oggetto di un attacco deliberato, nel corso del quale sono rimasti feriti anche un altro cameraman e un giornalista dell’emittente al-Jadeed. Il governo di Beirut ha protestato ufficialmente presso Damasco.
Una simile serie di eventi non è in realtà che una minima frazione della estrema violenza che anche ieri ha insanguinato la Siria, nel contesto di una repressione della ribellione al regime di Assad che continua senza requie a poche ore dalla scadenza del termine per l’applicazione della tregua sancita dall’Onu, alla quale però ben pochi sembrano credere. Secondo fonti dei rivoltosi, ieri sono state uccise nel Paese oltre cento persone soprattutto nelle provnce di Hama, Homs e Idlib e tra le vittime si conterebbero numerose donne e bambini, confermando il clima di straordinaria ferocia in cui la Siria è precipitata.
Solo pochi ottimisti, come si osservava prima, sembrano disposti a confidare nell’imminente cessate il fuoco. Al di là delle parole dei diplomatici c’è infatti una realtà evidente: le due parti che si confrontano sul terreno non si fidano l’una dell’altra e non paiono disposte a deporre le armi.

Le violenze negli ultimi giorni, anziché ridursi, sono peggiorate. E il rifiuto dei ribelli di accogliere la richiesta del governo di fornire garanzie scritte sulla fine degli attacchi e dei finanziamenti esteri la dice lunga sull’atteggiamento degli uni e degli altri.

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