L'Irak secondo Hillary. "Votai sì all'intervento ma ora dico: sbagliai"

Clinton racconta di rimpiangere la scelta fatta "in buona fede" nel 2002. E prende le distanze da Obama. In modo "calcolato" per non apparire sleale

L'Irak secondo Hillary. "Votai sì all'intervento ma ora dico: sbagliai"

Sull'Irak, Hillary Clinton sta con la Casa Bianca, ma con strategico distacco.

La responsabilità di quello che sta accadendo, la pericolosa avanzata dello Stato islamico, è del premier sciita iracheno Nouri Al Maliki, che con la sua politica settaria «ha lasciato che questo accadesse», ha detto l'ex segretario di Stato in un intervento alla George Washington University e in un'intervista alla Bbc. Alla Cnn, martedì, ha raccontato di come nel 2011 l'Amministrazione avesse offerto a Bagdad possibilità di far rimanere in territorio iracheno alcune migliaia di soldati americani. Le trattative con l'esecutivo di Al Maliki fallirono e «ripensandoci, quello è stato un errore del governo iracheno».

La calcolata versione di Hillary anticipa la possibilità di una campagna presidenziale nel 2016. Le bilanciate considerazioni di politica internazionale, i ricordi ben filtrati degli anni alla guida del Dipartimento di Stato contenuti nella sua autobiografia «Hard Choices» - scelte difficili - uscita agli inizi del mese, rivelano una volontà di distanziarsi dalle parti più controverse della strategia estera di Barack Obama, senza però apparire sleale. Clinton deve infatti al presidente la continuità del suo progetto politico dopo la sconfitta alla primarie del 2008. Allo stesso tempo, velleità presidenziali le impongono una garbata presa di distanza da alcune delle più dibattute scelte di un leader la cui politica estera è oggetto di critiche aspre.

Nell'autobiografia, l'ex segretario di Stato rivela divergenze su diversi dossier internazionali con la Casa Bianca ma sull'Irak non entra mai nei dettagli. Spiega d'aver votato nel 2002, da senatore, in favore dell'intervento americano. E ammette di rimpiangere oggi quel voto: «Pensavo d'aver agito in buona fede e d'aver preso la migliore decisione con le informazioni in mio possesso... ma ho sbagliato. Punto e basta». Non c'è nulla nel libro sul dibattito che, con l'avanzare degli uomini armati di Isis, divide la politica americana. Se un numero limitato di truppe fosse rimasto, oggi l'Irak sarebbe stabile? Quando Hillary era segretario di Stato, nel 2011, ha fatto pressioni per mantenere un contingente di soldati sul campo, anche se la Casa Bianca e i membri della squadra del presidente preferivano un ritiro completo per soddisfare le promesse della campagna elettorale, spiegano gli analisti. Clinton «ha lottato come un leone per tenere le truppe laggiù», ha detto al Daily Beast l'ex ambasciatore in Irak, James Jeffrey. Se Hillary non scrive di questo episodio nel libro, rivela però su quali altri dossier avrebbe agito in maniera differente dalla Casa Bianca. Nel 2009, per esempio, appoggia l'idea dell'aumento di truppe in Afghanistan, ma si oppone all'annuncio della data di un ritiro anticipato: pensava che rivelarla equivalesse a dire ai talebani d'organizzare le loro operazioni militari con calma.

Sul conflitto israelo-palestinese, Clinton non era d'accordo nel sostenere un completo congelamento delle costruzioni di insediamenti israeliani in territorio palestinese come precondizione all'avvio di colloqui diretti.

Durante i giorni della rivoluzione egiziana di piazza Tahrir, l'ex segretario ha pensato che l'America, appoggiando l'esplodere dei desideri di libertà e democrazia di un'intera generazione, stesse togliendo troppo velocemente il proprio sostegno al saldo alleato Hosni Mubarak. Sulla Siria, avrebbe armato i ribelli moderati, mentre l'Amministrazione ha preferito non intromettersi.

Hillary racconta d'aver scritto una nota a Obama sul presidente russo, prima di lasciare il Dipartimento di Stato: «Se Putin è contenuto e non spinge oltre la Crimea verso l'Est dell'Ucraina, non sarà perché ha perso il suo appetito per più potere, territorio, influenza». Era l'inizio del 2013.

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